lunedì 18 novembre 2024

I bei vecchi tempi Geologici

    Un’espressione che, almeno fino a non troppo tempo fa, si usava per significare che una data cosa era piuttosto vetusta, era attribuirla a “ere geologiche fa” e i “tempi geologici” erano quelli dei processi che si voleva definire lentissimi, per esempio quelli burocratici. Non erano locuzioni premianti, semmai il contrario. Ma come Geologi non ce la siamo mai presa, perché la vastità del tempo geologico è sempre stato uno dei concetti tra i più affascinanti della materia. Declinato rispetto ai tempi ben più brevi dell’orizzonte umano assume un significato indubbiamente diverso.

    Il mondo di H. Sapiens, però, negli ultimi decenni si sta facendo ancor più frenetico e anche la Geologia, volente o nolente sembra dovervisi adeguare, perdendo di flemma (talvolta ahimé di autorevolezza), entrando con tutto il suo peso nei tempi della Storia, financo a quelli della Cronaca.

    Le sempre più frequenti sciagure climatiche richiedono nodelli previsionali traguardati al decennio o giù di lì ed ai Geologi si chiedono spesso spiegazioni pressoché immediate degli accadimenti, questo porta ad un aumento sempre più marcato della risoluzione delle analisi sul record geologico per reperire elementi utili ai modelli previsionali sugli scenari futuri e corrispondenze con i fenomeni attuali (e se il supporto dei dati tratti dallo studio del libro della Terra non è adeguato, gli sfondoni clamorosi sono dietro l’angolo).

    Oggi come non mai la fortuna di uno Stato o di un Governo può dipendere dalla disponibilità di risorse (che siano per la green o per la grey economy cambia poco), dalla capacità di gestirle e di controllarne di ulteriori o dalla vulnerabilità ad essere soggetto a eventi calamitosi/catastrofici di varia tipologia e dalla resilienza agli stessi.

    Le politiche ambientali sono, però, per definizione politiche di medio lungo termine – ovviamente sempre a scala Sapiens – richiedendo scelte di tipo strutturale che dovrebbero nascere da un robusto supporto di conoscenze tecnico scientifiche, verificabili, e dovrebbero essere accompagnate da modelli previsionali e di monitoraggio in itinere, al fine di adeguare i processi mano a mano che i modelli si affinano.

    Questo non si sposa, però, dobbiamo dirlo, benissimo con la Democrazia, avendo questa nell’alternanza dei governi una sua peculiarità fondamentale e, direi, imprescindibile.  Diviene pertanto essenziale che su tutta una serie di questioni, in particolare, per quanto riguarda l’oggetto di questo sproloquio, le questioni ambientali ed in generale quelle a carattere tecnico-scientifico vi siano delle condivisioni di base e soprattutto approcci non discontinui e ideologici.

    La Democrazia odierna ci mostra, invece, che così non è, ed anzi è un problema. Posizioni dogmatiche, demagogiche, financo francamenteirrazionali tendono ad avere ampio consenso, generando anche rappresentanzapolitica e di governo. Il caso, ovviamente, più rappresentativo al momento è quello di Trump e del suo governo, ove vi sono le posizioni antiscientifiche più perniciose non mancano e ove vi è quella geniale contraddizione vivente di Munsk, straordinario innovatore da un lato, terribile dogmatico su altri. Sicuramente la nuova presidenza Trump non potrà non avere ripercussioni pesantisulla questione climatica, ma anche sulle questioni agrotecniche, energetiche e mediche in un mix di avventurismo e negazionismo.

    Se aggiungiamo che comunque su posizioni simili, magari in modo meno parossistico e più sottotono vi sono i governi di molti paesi democratici, più o meno, e francamente NON democratici non c’è da essere sereni rispetto alle grandi questioni ambientali del nostro tempo.

    Bisogna, però, riflettere profondamente sul perché dalla società nel suo complesso questi temi non sono adeguatamente percepiti e condivisi, anzi, sono spesso invisi e oggetto di strumentalizzazione di parte. Sicuramente, e non è complottismo, vi è la mano di grandi portatori di interessi economici che produce questo effetto attraverso – purtroppo efficaci – campagne mirate di propaganda più o meno complesse e talvolta di vera e propria disinformazione, ma non solo. C’è oggettivamente una sorta di egoismo sociale di fondo che fa sì che siamo profondamente restii, se non ostili, a mettere in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo, perché significherebbe rinunce più o meno immediate per benefici relativamente lontani nel nostro orizzonte temporale (ma non in quello della prossima generazione per esempio) e questo, tornando alle considerazioni sulla democrazia, non genera consenso elettorale, tutt’altro. C’è anche da dire, invero, che una qualche – anzi più di qualche – “mea culpa” lo dovrebbero fare diversi soggetti del mondo ambientalista, in fondo se alla causa ambientale, spesso si è rivolta più ostilità che supporto, qualche riflessione sul proprio operato sarebbe più che opportuna.

    Infatti, un approccio altrettanto dogmatico e fondamentalista, anche nei modi a volte, ha portato a decisioni altrettanto irrazionali e non adeguatamente ponderate con effetti negativi sull’ambiente, o comunque non positivi, e controproducenti sul piano economico, con ricadute spesso sulle fasce deboli della società. Questo è particolarmente evidente in UE, dove non avremo magari le parossistiche espressioni trumpiane, ma su temi quali l’energia (la questione del nucleare, piuttosto che l’approccio sul gas…) o l’agrotecnica (la questione OGM su tutte), l’auto elettrica l'assunzione di posizioni poco pragmatiche ha portato alla sofferenza di importanti fette di economia e con esse di società, senza che vi fosse sufficiente sensibilità e prontezza verso il disagio e la marginalizzazione di queste, redendole estremamente vulnerabili alle sirene demagogiche populiste e più o meno antiscientifiche. Stendiamo un velo pietoso sulla questione nel nostro paese.

    Il così detto “ecosocialismo” così come coniugato fino ad oggi in UE è stato un mezzo fiasco, visto che si è perso le masse per strada. I movimenti che vogliono, giustamente, un progresso sostenibile hanno un grande lavoro da fare adesso, che è quello di ricreare un ampio consenso trasversale su tali questioni, supportando la comunicazione e l’informazione scientifica attraverso una divulgazione onesta, trasparente, accessibile e partecipata, denunciando le scelte e posizioni non basate su criteri razionali, non assecondando le emotività del momento e nemmeno tentando di cavalcarle e senza nessun ammiccamento a posizioni preconcette o ideologiche. L'Europa deve continuare ad essere coraggiosamente alfiere della battaglia dello sviluppo sostenibile, ma deve essere più concreta nel farlo.

    Dare oggi dell’orco a Trump e dei buzzurri ai suoi elettori, e fare altrettanto coi populisti nostrani, non solo non serve, ma è, anzi deleterio. Si deve opporre il ragionamento, si deve smontare l’emotività, si deve rivolgersi alla testa delle masse e si deve riportarle alla partecipazione alla vita pubblica. L’affermarsi di posizioni come quelle del Tycoon d’oltreoceano, di Orban qui in UE o di altri sovranisti vari, si deve anche alla disaffezione popolare alla partecipazione democratica, fenomeno che oltre a produrre gli effetti che già vediamo indebolisce progressivamente la democrazia stessa, facendola diventare gradualmente qualcos’altro di tutt’altro che desiderabile. E anche questo non sta avvenendo in “tempi geologici”.

 

lunedì 4 novembre 2024

Naturalmente Antropico

La lettura del libro "il Governo dell'Acqua - Ambiente Naturale e Ambiente Costruito", del Professor Andrea Rinaldo (1), mi ha indotto in alcune riflessioni. Credo che su determinate questioni anche noi Geologi dovremmo interrogarci e non adottare posizioni per partito preso. Ha senso parlare oggi di ambiente naturale, nel senso di non recante alcun senso di artificializzazione, ovverosia sia di effetti indotti da attività antropiche? Possiamo dire che esistano ambienti simili sulla Terra, oggi?

Recenti studi archeologici mostrano come anche la parte interna dell'Amazzonia avesse una cospicua popolazione umana, stimata in decine di milioni di individui, socialmente complessa e con realtà "urbane" ragguardevoli. L'arrivo dei conquistadores e con loro delle malattie ha determinato lo sterminio di queste popolazioni e la loro regressione a gruppi tribali isolati, creando l'illusione successivamente che fosse sempre stato così e che il bacino del Rio delle Amazzoni fosse una sorta di Eden dove l'uomo non si era inoltrato. Tolta la grande foresta sudamericana cosa resta? Forse qualche abisso oceanico. Forse.

Orbene questo non vuol essere un lamento sull'invasività e pervasività della nostra specie, è un dato di fatto, e oggi siamo di fronte alla sfida di renderci più "sostenibili" per il pianeta, ma lo facciamo in primis per noi, diciamocelo (non c'è nulla di male ad essere intellettualmente onesti, anche nell'ambientalismo), se poi la biosfera planetaria ne trae beneficio è un po' un effetto collaterale, stavolta positivo.

Riconoscere, però, che parlare di "ambiente naturale" e "rinaturalizzazione" in molti contesti è solo retorica e ha poco senso, a mio avviso, consentirebbe di partire più pragmaticamente nei ragionamenti su come tutelare davvero alcuni ambienti e soprattutto con rendere meno impattante la nostra presenza. Così come iniziare a vedere il concetto di "equilibrio naturale" per quello che è... ossia, spesso, una mera mistificazione comunicativa. In tutti le aree della Terra, abbiamo evidenze dirette o indirette degli effetti della presenza umana, la cui intensità varia in modo direttamente proporzionale alla vicinanza col più vicino insediamento della nostra specie e con la densità della sua popolazione in quell'areale.

Dire, quindi, in molti casi, che si ha un obbiettivo di "ripristino degli equilibri naturali", nel concreto dovrebbe tradursi con  un allontanamento delle comunità dalla zona su cui si vuol operare e una minimizzazione degli effetti su scala planetaria di origine antropica. Puro velleitarismo. Più utile ad azioni efficaci di tutela sarebbe lavorare a tutte quelle soluzioni che consentono una miglior coesistenza tra i vari ambienti e la nostra specie, attraverso tutte quelle misure che consentano un reciproco adattamento.

Piccola parentesi, lo stesso concetto di "equilibrio naturale" - come evidenzia anche il prof. Rinaldo nel suo libro, è fuorviante e mistificatorio. Si esprime questo concetto, come se l'equilibrio degli ecosistemi fosse uno stato stazionario e duraturo, mentre è in realtà uno stato dinamico con continui aggiustamenti ai cambiamenti dei parametri di fondo (clima, fisica atmosferica, dislocazione continentale...), che appunto variano con intensità e velocità variabili nel tempo in funzione della contingenza.

Azioni di tutela volte a ritornare al concetto di equilibrio naturale, nella sua accezione di staticismo perfetto, significa, realtà, applicare una forzosa cristallizzazione a un dato sistema ambientale, che prima o poi genererà effetti imprevedibili e raramente positivi.

Ne consegue la necessità di strategie di adattamento che abbiano il coraggio di applicare anche interventi diretti di trasformazione territoriale, se necessari, e l'uso delle possibilità che la tecnologia offre: la tecnofobia che si respira in tanta parte del movimento ambientalista, che vagheggia un ritorno ad una fase più spartana e bucolica del rapporto uomo - natura, spesso ha prodotto iniziative che hanno generato costi sociali pesanti per le popolazioni più deboli, interventi inadeguati che si sono rivelati inefficaci alla bisogna, o peggio controproducenti e alimentato l'idiosincrasia verso la necessità di sensibilità ambientale.

lunedì 8 luglio 2024

Il falò delle innovazioni

Molti il 13 maggio avevamo gioito. Una notizia passata quasi inosservata.  Eppure davvero lo scorso 13 maggio si poteva definirlo una giornata storica: Vittoria Brambilla e Fabio Fornara dell'Università di Milano avevano messo a dimora le prime piantine di riso geneticamente editate TEA (tecniche CRISPR di evoluzione assistita) per resistere a parassiti come il brusone senza usare fitofarmaci, nella campagna pavese di Mezzana Bigli. Una sperimentazione certo, ma finalmente in campo aperto, il primo consentito in Italia, dopo il tetro rogo ordinato nel 2012 dal Ministero dell'Ambiente delle piante da frutto di sperimentazione dell'Università della Tuscia, vanificando anni di lavoro e di attese del mondo scientifico internazionale che guardava a quel lavoro con grandi aspettative.
Presenti il 13 maggi grandi amici del mondo della ricerca come la Senatrice Cattaneo, il mitico Defez e l'eroico Cappato. Avevamo gioito in diversi perché pensavamo che quello potesse essere l'incipit di un ritorno alla razionalità di questo paese e alla possibilità di lavorare sulle innovazioni anche in campo agricolo.  Anche sulle biotecnologie.
Nemmeno un mese dopo il campo è stato distrutto, si pensa da presunti attivisti ambientalisti anti OGM.  E pensare che in questo caso nemmeno erano OGM, si trattava di genome editing una tecnologia che permette di "lavorare" sul DNA delle piante senza introdurvi elementi esterni.
Su questo l'UE è molto ipocrita, vietiamo gli OGM fatto salvo poi importarne a tonnellate, rendendoci anche sul lato alimentare dipendenti dai paesi extraeuropei e facendo fare tragitti molto poco sostenibili alle nostre derrate alimentari.
Sì perché il problema è proprio questo, se vogliamo davvero ridurre il nostro impatto sugli ecosistemi, senza sterminare il 70% della popolazione mondiale ed anzi garantendo un globale migliore tenore di vita ci serve un'agricoltura efficiente, che richieda meno dispendio di acqua ed energia, meno necessità di fertilizzanti e agrofarmaci. Oltre certo un cambio di stile di vita che, per esempio, ci porti a ridurre la carne, specie bovina nella nostra dieta - abbandonando lo scempio degli allevamenti intensivi, prediligere la frutta di stagione, variare le fonti proteiche.
Per farlo ci servono le tecnologie, sia quelle meccaniche per migliorare irrigazione, semina, controlli, sia quelle biotecnologiche, che consentono di produrre piante in grado di crescere più in fretta con meno risorse e impatto e con miglior resa alimentare.
E sì sono arrabbiato per la  distruzione della sperimentazione TEA. Sia perché l'opinione pubblica, i media, la politica, le istituzioni, lo stesso mondo agricolo non hanno affatto dato rilevanza al fatto, ne manifestato il proprio sdegno, dimostrando ancora una volta quanto questo paese sia inadeguato al futuro. Ma a questo punto mi viene da dire anche al presente.
Un piccolo gesto concreto che ognuno può fare è firmare l'appello dell'associazione Coscioni pro ricerca biotecnologica.

domenica 9 giugno 2024

PENSIERI ATOMICI

Lo dico in partenza. Di base io sono pro energia nucleare. Piaccia o meno le centrali nucleari, con poco carburante possono fornire molta energia, per lunghissimo tempo, con emissioni di CO2 praticamente nulla. E il sistema si abbinerebbe bene anche alla produzione di idrogeno, il famoso "idrogeno viola". Ciò detto, quando il tema si associa al nostro paese la questione si fa più articolata. L'opinione pubblica è generalmente contraria e il tema è da sempre oggetto di strumentalizzazione politica. Oggi il governo si dichiara pro nucleare, e dice che bisogna tornare ad investirvi. Agli ambientalisti più irriducibili può non piacere, però anche nei rapporti IPCC un ruolo nella decarbonizzazione della produzione di energia il nucleare ce l'ha, con un apporto di almeno il 10% da qui al 2050. Potrebbe anche essere di più, visto il forte investimento in nuove centrali operato attualmente dalla Cina e in pianificazione anche da parte di altri stati. Si parla non a caso di "rinascimento nucleare", poiché piaccia o no l'energia dell'atomo, in chiave green, ha due forti attrattive: zero emissioni, stabilità e continuità produttiva.  Alle rinnovabili, infatti, si imputa soprattutto la discontinuità produttiva come principale punto a sfavore, che richiede per essere ovviato, una profonda revisione della rete di distribuzione.
A sfavore il nucleare ha i tempi lunghi per la realizzazione e i grandi investimenti necessari. Per cui non amo molto le semplificazioni con cui alcuni Ministri affrontano il tema, dimostrando di aver sulla questione al massimo qualche nozione da wikypedia. 
Va detto che una prima questione da affrontare sarebbe quella dell'efficienza. Ossia, sprechiamo troppa dell'energia che produciamo e abbiamo ancora troppi sistemi inutilmente energivori. La prima sfida è ottimizzare la produzione e ridurre i consumi attraverso efficientamento tecnologico. Poi abbiamo un problema di rete, spesso inadeguata, se guardiamo la questione in ambito europeo, vediamo come in alcuni paesi abbiamo surplus di produzione, a fronte di carenze di altri, e non vi è una rete adeguata a permettere una armonizzazione delle distribuzioni energetiche, con, tra l'altro, dinamiche dei prezzi a livello locale che generano non poche disomogeneità. Un tema da risolvere sarebbe anche questo, che consentirebbe di rendere l'intero continente meno energicamente instabile.
Il primo lavoro è, quindi, di ottimizzazione. Appunto. Poi, tornando al nucleare, le prospettive tecnologiche ci sono e c'è un ruolo in questo sviluppo anche dell'Italia, in Europa si va a macchia di leopardo, con paesi che hanno abbandonato l'atomo ad altri che se lo tengono stretto, ma è sicuramente nei paesi del gruppo Brics che il nucleare sembra essere una strategia sempre più chiara, e potrebbe essere un ulteriore tassello nel consolidamento di quelle economie e anche delle loro strategia in chiave ambientale.
Personalmente penso che per l'Italia parlare di energia nucleare sia improprio. Non nel senso che non ne abbiamo competenza e capacità, ma abbiamo dei nodi da risolvere prima, delle ipocrisie e inadeguatezze, che se non affrontati chiaramente e soprattutto senza un onesto dibattito pubblico tecnico e politico non ci permetteranno di andare davvero avanti sulla questione, oltre le strumentalizzazioni politiche. Mi riferisco per esempio al Deposito Nazionale. Ossia la struttura che dovrebbe ospitare i rifiuti radioattivi prodotti dalla prima fase del nucleare italiano e prodotti ancora oggi. Attualmente dipendiamo dall'estero per tale gestione e abbiamo siti inadeguati a gestire le nostre scorie. La CNAPI, la carta con i siti potenzialmente idonei dal Deposito Nazionale è rimasta a lungo celata, soprattutto per pusillanimità dei vari governi che si sono alternati.
Una volta divulgata, ogni territorio individuato ha alzato gli scudi (lodevole eccezione solo il Sindaco di Trino Vercellese, che già ospita una centrale chiusa, ed ha dimostrato grande lucidità e onestà intellettuale sul tema) e trasversalmente  tutte le forze politiche hanno assecondato i vari fronti del nord.  La domanda è questa, come possiamo pensare di gestire una nuova generazione di centrali nucleari se non abbiamo la maturità per gestire le nostre vecchie scorie?


https://astrolabio.amicidellaterra.it/node/3256

lunedì 13 maggio 2024

QUANTO SONO CRINGE GLI STRATIGRAFI (O NO?)

E' di qualche giorno fa la notizia che la Commissione Internazionale di Stratigrafia, la ICS, quella che redige lo schema cronostratigrafico qui a lato, ossia la suddivisione ufficiale dei vari periodi della storia del nostro pianeta, e che si basa sull'individuare secondo vari criteri dei precisi orizzonti stratigrafici che rappresentano un preciso intervallo cronologico, ha deciso di non "battezzare" l'Antropocene. Ossia ad oggi questo termine NON ha una valenza rispetto al tempo Geologico e alla storia terrestre. Un articolo del Bo live spiega bene in cosa consiste il procedimento e non è mia intenzione fare uno scritto per spiegare ulteriormente la questione, se vi interessa approfondite, dell'argomento avevo parlato già tempo fa. L'iter che porta a questa conclusione è complesso e frutto di anni di discussione, di un apposito gruppo di lavoro di geologi costituito proprio ad hoc. La decisione è stata piuttosto netta. Tutta la vicenda è ben raccontata su Pikaia.
Fatto sta, quindi, che continuiamo a restare nell'Olocene, iniziato circa 11mila anni fa con la fine dell'ultima grande glaciazione.
Quello su cui vorrei riflettere sono le reazioni che questa comunicazione ha generato nel mondo ambientalista, in parte dell'opinione pubblica, in enti e soggetti tecnici, istituzionali e financo scientifici e le particolari manifestazioni di ciò in quel ginepraio (per essere cortesi) che sono i social media.

Definire una unità cronostratigrafica richiede particolari criteri, tra cui la presenza di marker precisi e inequivocabili, l'esistenza di sezioni tipo e la possibilità di cronocorrelazioni su larga scala. L'Antropocene manca di molto di questo e spesso quelli che dovevano essere marker inequivocabili, per esempio la presenza di plastiche, sono piuttosto equivoci. La commissione stratigrafica preposta ha fatto il suo lavoro. All'antica. E molto meticolosamente, come solo gli stratigrafi sanno essere. 

Eppure si è gridato allo scandalo, si è denigrato il lavoro della commissione e anzi, si è dichiarata addirittura complicità con i negazionisti del climate change e connivenze con Big Oil. La decisione è stata vista come pericolosa, poiché contro il mainstream ambientalista del momento, che permea anche molte istituzioni scientifiche e perciò laddove non è stata criticata è stata comunque quasi ridicolizzata. Anche il nostro SNPA, suo malgrado non ha saputo sottrarsi a ciò, quasi ci fosse il bisogno di prendere le distanze da questi ottusi o collusi stratigrafi.

Si è così, però, di fatto, negato il fondamento stesso del metodo scientifico. Non aver introdotto l'Antropocene nella tavola cronostratigrafica significa negare l'impatto antropico odierno a scala globale sull'ambiente? No, significa, però, che il nostro impatto non è tale da generare una discontinuità nel record geologico tale da individuare un nuovo capitolo nella Storia della Terra. Storia che deve essere registrata nella roccia e non nella chiacchera. E direi, che è giusto così. Le Scienze della Terra hanno da sempre smantellato l'egocentrismo della nostra specie. Prima dimostrando che la Terra aveva una storia ben più lunga della nostra, e che noi siamo ben gli ultimi arrivati, poi con Darwin palesando che la vita non ha avuto come fine la generazione della nostra specie, la cui comparsa di deve ad una serie di fattori diversi e che il nostro successo è ben lungi da essere certificato, poiché la nostra presenza su questo sasso alla periferia di una galassia periferica è piuttosto effimera se paragonata a quella dei Dinosauri, o degli squali o dei millepiedi...

La verità è che l'Antropocene è un'altra manifestazione in negativo del nostro antropocentrismo, anche nell'esecrare il nostro impatto sul pianeta, sentiamo comunque il bisogno di eternarlo nella storia geologica, al pari dell'asteroide dello Yucatan, le glaciazioni, la catastrofe del ferro, l'orogenesi alpina, il disastro del Permo-Trias. La verità è che sparissimo oggi. Tempo qualche decina di migliaia di anni, un battito di ciglia geologico, di noi non ci sarebbe traccia. E questo ci rode immensamente. 

Gli stratigrafi ci hanno, di nuovo, rimesso apposto. Invece di disquisizioni sull'antropocene, sarebbe opportuno recuperare sano pragmatismo su come ridurre la nostra voracità verso le matrici ambientali, praticare uno sviluppo più equo verso  le varie popolazioni del mondo e verso le altre specie presenti, su come far sì che il green new deal non sia retorica o un nuovo dogmatismo o peggio una nuova forma mascherata di sfruttamento globale, ma un orizzonte compatibilità ambientale e sociale

Dobbiamo essere consci del fatto che tutto il bailamme per una maggior sostenibilità della nostra presenza sulla Terra, non serve alla Terra, serve alla nostra sopravvivenza. Il più possibile comoda.

lunedì 15 aprile 2024

FA BENE O FA MALE? RAZIONALITA' e GEOLOGIA nelle FOODFAKE

Portate pazienza per questo titolo un po' in slang, ma anche questo vecchio rivoluzionario pleistocenico dobbiamo cercare di essere un po' cool ogni tanto (anche se gli esiti non ci paiono positivi).  Voglio consigliare la lettura di un testo che a prima vista potrebbe centrare poco con la Geologia e dintorni. Ma è sicuramente un bel testo per quanto riguarda il pensiero razionale e lo sviluppo di un buon senso critico e capacità di discernere le informazioni. In questo libro il chimico - divulgatore Bressanini, di cui già qualche testo vi segnalai, fa un viaggio attraverso alcune delle principali affermazioni riguardanti il mondo alimentare, al fine di rilevarne l'infondatezza, talvolta la nocività e spesso la precisa volontà di disinformazione a meri fini commerciali. Come afferma lo stesso autore, il testo non è un elenco completo di tutte le "food fake", ossia notizie artefatte sul cibo che circolano, ma una precisa selezione, volta soprattutto a fornire al lettore gli "attrezzi" per imparare a capire quando la decantazione di taluni effetti di certi alimenti è palesemente infondata e soprattutto come sapere distinguere le informazioni. Un METODO insomma, che nella società delle pseudoscienze e delle notizie artefatte è utile non solo nel campo alimentare. Dove per altro si diffondo spesso credenze, che "siccome non fanno male" sembrano innocue. Ma innocue NON sono in primis perché in ogni caso spesso portano a spendere soldi inutilmente, ma spesso a non dedicarsi a pratiche più salubri, che realmente potrebbero far bene. Tra l'altro un po' di Geologia c'è, nel testo, anzi più di un po'. Capitoli corposi sono dedicati alle acque da bere, di volta in volta vendute come acque "della salute" dai taumaturgici poteri e poi al Sale e in particolare al Sale dell'Himalaya, esempio di commercializzazione capitalistica, di un'evaporite. In entrambi gli argomenti viene raccontato come sono distorti, nei meccanismi della commercializzazione e della pubblicità i processi geologici di formazione di questi elementi e come vengano dati significati a elementi che in realtà sono presenti in tracce e che non hanno nessun effetto reale sul consumatore.
Lo stile divulgativo è piacevole e vi sono poi degli utili box di riepilogo. A mio avviso farebbe bene essere letto dai troppi salutisti della domenica e nelle scuole superiori. 
Smonta con fermo garbo molti luoghi comuni il cui unico effetto è farci perdere tempo e denaro.
E' probabile che dopo averlo letto non andrete più al supermercato allo stesso modo.

mercoledì 7 febbraio 2024

Col trattore a comandare (tra l'ipocrisia popolare)

E' una domenica mattina qualunque. Decido di fare la spesa, visto che in casa manca qualcosa. La settimana entrante si prevede intensa, gli altri familiari sono impegnati, approfitto per fare una spesa in serena solitudine. Fatto il giro, sono alla cassa. Davanti a me, vi è una signora con la spesa "grossa". Tra una chiacchera e l'altra esprime la sua massima solidarietà alla cassiera, costretta, a dire della signora, a forzato lavoro domenicale, quando potrebbe a buon diritto stare a casa a godersi la famiglia. Paga e se ne va. Tocca a me. La cassiera con un sospiro mi fa: certo che certa gente neanche si rende conto di essere ridicola. In fondo è così, l'ipocrisia all'eccesso, diviene ridicola e imbarazzante. La signora biasimava un sistema che richiedeva il lavoro domenicale della cassiera, perché c'è gente che privilegia la spesa di domenica. Esattamente come lei. Questa situazione non mi pare troppo dissimile a quella che si sta manifestando in questi giorni, durante le proteste degli agricoltori. 

Il plauso popolare che accoglie i trattori nelle città, espressione di un umore generalizzato per cui ogni protesta meriti appoggio a prescindere, specie se contro il Moloch Europeo - come sottolinea in un suo pezzo, seppur spigolosamente, il sempre puntuale e schietto Giuliano Cazzola - è quanto mai ipocrita.

Si badi, gli agricoltori hanno ragione a protestare per chiedere la giusta remunerazione del loro lavoro e nel contestare talune politiche del green deal europeo che, in nome di un approccio più ideologico che pragmatico scaricano su di loro gli oneri di una transizione ecologica condotta in modo non rapido, ma forsennato, hanno un po' meno ragione nel mettere in mezzo talune innovazioni come causa dei loro problemi o nel consentire che la loro protesta sia mescolata con movimenti complottari vari.

Ma il plauso pubblico è quanto meno fuori luogo, poiché sono anche, e non in piccola parte, i nostri comportamenti da consumatori ha determinare una quota parte significativa delle criticità attraversate dagli agricoltori oggi. Sono le nostre scelte sull'estetica dei prodotti che spesso genera ai produttori una forte frazione di scarto da gestire, sono i nostri comportamenti che spesso danno agio alla distribuzione di poter mettere alle strette il mondo agricolo sui prezzi d'acquisto. Così come sono le nostre adesioni a mode o a campagne mediatiche artefatte - olio di palma docet - che posso spazzare via interi settori agrozootecnici immotivatamente o determinare maggiori o minori bisogni di import di dati prodotti.

Alla fine ci siamo anche noi tra gli sfruttatori del mondo agricolo, cui portiamo oggi la nostra imbelle solidarietà, come quella della signora dell'inizio di questo mio vaniloquio.

Questa nostra solidarietà è inoltre una occasione persa, perché anziché fomentare il più o meno fondato risentimento degli agricoltori, dovremmo provare a riflettere con loro delle scelte errate fatte e in corso d'opera da parte delle Istituzioni, della Società e del medesimo mondo agricolo - basti pensare alle tante campagne della Coldiretti, fondate più su pregiudizio e protezionismo dal fiato corto, alla lunga rivelatesi assai controproducenti (e non è un caso se essa stessa oggi è contestata, e vorrei dire: finalmente!) - che qualche riflessione su se stesso la deve fare. L'agricoltura ha un impatto nel consumo di risorse e sulla sostenibilità delle produzioni. Demonizzare e negare i temi ambientali è, perciò, quanto mai errato. Lo sottolinea giustamente quella che, ad oggi, è ancora una delle migliori teste dell'ambientalismo quello serio, ossia Edo Ronchi, che invita il mondo agricolo ad aver contezza di come gli effetti del cambiamento climatico avranno, ed hanno già, un peso enorme sulla capacità del sistema agricolo e lo avranno sempre di più si in termini di quantità che di qualità delle produzioni. Strategie collettive e innovazione tecnica non sono eludibili in nome di vantaggi di corto orizzonte.

Certo, abbracciare acriticamente soluzioni più figlie di apparenza mediatica che di solidità tecnica, in nome di approcci più ideologici che ponderati è altrettanto deleterio. Soprattutto se non si valutano le ricadute sociali e gli scenari possibili. Lo ha ben espresso più volte, spesso in solitaria, spessissimo in tempi non sospetti, l'eroica Deborah Piovan che, con raziocinio ed una compostezza che non pare di questi tempi, più volte ha evidenziato come talune politiche della UE, per esempio quelle pro Biologico e sugli agrofarmaci, avrebbero profondamente messo in discussione la sostenibilità economica e ambientale del settore primario europeo, senza portare a benefici tangibili in termini di produttività o di contenimento degli impatti del settore sul clima e le varie matrici ambientali.

Ma si sa, a noi piacciono di più i guru, quelli delle belle parole e dei prediconi, che sanno affascinare anche Istituzioni spesso culturalmente e tecnicamente impreparate al governo di certi fenomeni, e che, però non rispondono mai degli effetti delle loro azioni, o delle campagne mediatiche di cui si fanno promotori, facendo leva sull'emotività dell'opinione pubblica, spesso senza supporto di dati o distorcendoli pur di supportare le proprie teorie, a scapito di innovazioni che, correttamente gestite potrebbero avere, vedi gli esempi delle biotecnologie  o più recentemente delle farine d'insetto.

L'agricoltura è fondamentale, letteralmente, per il sostentamento della popolazione mondiale, per il contrasto alla fame e alla povertà. Così come ha un ruolo non secondario verso un sviluppo ambientalmente più sostenibile su scala globale. E' necessario un vero coinvolgimento degli operatori del settore nell'elaborazione delle strategie di lunga durata che riguardano il settore, affinché trovino condivisione e siano efficaci. Ma il mondo agricolo deve porsi in un'ottica di apertura, di capacità di guardare, mi si passi la facezia, oltre al proprio orto, essere pragmatico e innovativo e non lasciarsi incantare dai pifferai della demagogia e della disinformazione.

mercoledì 10 gennaio 2024

Hasta siempre compagnero Charles

Ogni volta che mi imbatto in articoli, libri, dichiarazioni di contestazione o comunque messa in dubbio della "Teoria delle Specie" del buon Darwin, vado sempre un po' in agitazione.

In primis per una ragione, che potremmo definire, sentimentale. Charles Darwin divulga la sua Teoria in età molto avanzata, dopo anni di ragionamento, studio e approfondimento e dopo una gioventù d'esplorazione. Questo è per me ragione di speranza, mi da l'illusione di poter, ancora, lasciare un segno nel campo della conoscenza umana.

In secondo luogo, invece, per un motivo ben più sostanziale, l' Evoluzione delle Specie, è l'argomento razionale e oggettivo, più forte in assoluto contro tutte le tipologie di discriminazione su base etnica, sessuale e di genere e per derivazione anche su quelle sociali.

Non è un caso, infatti, se in molte teocrazie, negli stati nostalgici del segregazionismo e nei regimi che  predicano la superiorità etnica, Darwin non venga insegnato o addirittura sia oggetto di mistificazione o la una teoria venga impropriamente derubricata a mera ipotesi al paio di altre (questo soprattutto negli stati del sud USA).

Non è un caso che i sostenitori dello schiavismo negli USA fossero per lo più creazionisti e sicuramente antievoluzionisti, solo così potevano trovare supporto culturale rispetto allo sfruttamento dei neri o alla cacciata dei nativi americani, allo stesso modo si sono giustificati i vari colonialismi ottocenteschi, gli orrori dell'antisemitismo, genocidi e financo lo sfruttamento sociale, i proletari d'altronde, se sono socialmente inferiori dovranno esserlo anche antropologicamente, o almeno così si è lungamente pensato. E taluno forse pensa ancora. Le stesse prevaricazioni sulle donne, di fatto, trovano giustificazione in quelle posizioni che vorrebbero gli essere umani creati diversi, con ruoli e importanze diverse e perciò diversi diritti.

Darwin smantella il costrutto logico che sta alla base di tutto ciò, razionalmente e metodicamente, con dati, osservazioni, deduzioni solide. Pur non possedendo cognizioni di genetica, che emergeranno solo dopo alla divulgazione della "Teoria delle Specie", a corroborarla e integrarla, Charles Darwin in questa sua operazione riesce piuttosto bene, a giudicare dalla veemenza astiosa con cui i detrattori della Teoria, provarono vanamente a reagire. E ci provano anche oggi.

Nell'opinione pubblica odierna, troppo spesso la Teoria dell'Evoluzione è interpretata come un'ipotesi, o comunque una postulazione non ancora consolida, opinabile, se il creazionismo non è più sostenibile - almeno dovrebbe essere - ecco che spunta "il disegno intelligente" ossia l'opera di una qualche demiurgo divino o alieno a orientare l'evoluzione della vita sulla Terra - ovviamente orientare per arrivare a noi, che saremmo prodotto di un intelligenza e non dei fattori esposti lucidamente da Darwin. In questo strisciante svilimento dell'Evoluzione si è spesso arrivati anche alla prospettiva di una sua uscita o ridimensionamento nei programmi scolastici o comunque a esporla con molti svarioni nei testi di scuola.

Ma questo fenomeno e, più in generale, lo svilimento della Teoria dell'Evoluzione Darwiniana e dei suoi successivi perfezionamenti, non va sottovalutato, anzi andrebbe visto con preoccupazione da parte di una società con una coscienza civile, democratica, perché una sua rimozione, porterebbe inevitabilmente a mettere in discussione quei principi universali sui diritti umani, che sono il fondamento stesso di quello che noi chiamiamo Occidente, per lo meno nella sua accezione migliore.