sabato 20 novembre 2021

Idrochimica dell'oscillococcinus

Prima o poi doveva succedere, in questi tempi di pseudoscienze  e di dibattito sull'opinabilità delle affermazioni scientifiche ed in cui il parere di un diplomato su Wikypedia (quando va bene, più spesso l' "università" è roba tipo "noncielodicono") vale quanto le ragionate argomentazioni di studiosi con anni di approfondimenti sulle spalle. In questi tempi dove si pensa di "prevenire" i terremoti, si ragiona di Terra Piatta, e di medicine "alternative", doveva succedere che qualcuno cercasse conferma delle infondate assunzioni di base dell'omeopatia (memoria dell'acqua, forze quantiche), cercando evidenze e ricorrendo a tecniche e strutture idrochimiche. Quando ci è capitato tra le mani un articolo di Water, rivista free, che si occupa di acqua, solitamente di un certo prestigio e serietà, in cui dei ricercatori russi (alcuni free lance, altri di istituti anche importanti), in cui si voleva verificare l'effetto dello "sperimentatore" sui risultati delle analisi spettrografiche su campioni di preparazione omeopatiche, ammettiamo non ci è presa bene.

Va detto che in Russia, l'omeopatia, assieme ad alcolismo, omofobia e la tutela della libertà di espressione, è un fenomeno non trascurabile, soprattutto per l'apprezzamento che sembra suscitare in diversi alti funzionari del paese (la razionalità solitamente non è di casa quando le istituzioni sono occupate da lacché, indottrinati, inetti e fanatici... ricorda qualcosa?). Lo studio, di fatto, vorrebbe trovare un elemento che giustifichi come mai nei molti studi fatti su preparati omeopatici spesso non si rinvenga nulla che renda "diverso" quel preparato dalla mera acqua o acqua e zucchero e che, quindi, evidenzi il fondamento scientifico delle proprietà curative che gli vengono attribuiti. Sostanzialmente sarebbe l'effetto dello sperimentatore, l'errore dovuto a come si manipola il campione per le analisi, a mascherare le peculiarità dei prodotti omeopatici. Fatalità, questa cosa succederebbe specialmente sui preparati. Già forse nelle premesse dello studio ci sarebbe da dire, ma comunque andiamo avanti. Sono stati considerati preparati omeopatici non prodotti con il "classico" sistema della diluzione a partire dalla sostanza primaria, ma con quelli preparati con il sistema dell' "imprinting elettronico", ossia con l'uso di appositi apparati "i nosodi", che fotocopierebbero in soluzione acquose "bianche", l'impronta degli elettroni di preparati omeopatici. Facciamo un respiro e proseguiamo. 

Si sono scelte 8 preparazioni omeopatiche, ne citiamo solo alcune per dare un'idea: una era preparato di liquido cerebrospinale, una di uranio (!). I campioni delle varie preparazioni sono stati accuratamente coperti con fogli di alluminio (vulgo carta stagnola) per proteggerli dai campi elettromagnetici che avrebbero potuto alterarne l'impronta elettronica (sic!) e consegnati in diversi laboratori per essere testati. Le analisi sono state di tipo spettrografico, rispetto vari tipi di radiazione. In linea teorica i vari preparati sottoposti alla medesima radiazione, se fossero stati la medesima sostanza, avrebbero dovuto dare spettrogrammi raffrontabili.  Ovviamente questo non è successo. Ogni preparato non ha nulla di caratteristico e gli esiti sono assolutamente privi di qualsiasi correlazione o andamento.  Per gli autori dello studio questo si deve al fatto che sul tema ci sono ancora troppo pochi studi e soprattutto ritengono plausibile che ci sia qualche meccanismo fisico, non ancora noto e inaccessibile che renda, invece, distinguibile i preparati. Per una qualche ragione, il tizio che fa le analisi è molto più invadente con i campioni omeopatici, rispetto alle analisi di altri preparati. 

Perché abbiamo speso tempo a parlare di questa storia? Perché vedere uno studio così su una rivista scientifica e sapere che ci sono gruppi di ricerca, che coinvolgono anche strutture accademiche, che si dedicano a cose così ci fa preoccupare.  Perché, nonostante la sostanziale inconcludenza e inutilità dello studio, esso può comunque rappresentare una legittimazione di queste pseudoscienza. Domani potremmo trovarci  studi sulla rabdomanzia in qualche ateneo. Diranno i nostri 25 lettori: "state sereni, è successo in Russia!". Eh... peccato che in Italia abbiamo ancora un ospedale PUBBLICO omeopatico, che in UK è solo da un paio d'anni che no si sovvenzionano più i farmaci omeopatici, che recentemente il Ministero della Salute ha sdoganato l'OSTEOPATIA, importanti leader politici hanno chiropratici e omeopati come "medici" di fiducia.

Se pseudoscienze, pensieri "magici", filosofie esoteriche, si travestono da discipline scientifiche imitandone i linguaggi ed iniziano a riceverne la dignità, rapidamente inizieranno a distogliere energie, tempo e fondi dai reali processi scientifici, ad inquinare il dibattito pubblico con false postulazioni, ad irretire istituzioni e opinione pubblica. Casi come Stamina, Di Bella, Giuliani coi terremoti, sono nati così. E gli effetti sono stati anche tragici. 

Per questo la diffusione di queste pratiche ci preoccupa. E dovrebbe preoccupare un po' tutti.

Hasta la Geologia, siempre.

mercoledì 10 novembre 2021

Adelante Greta,con judicio

Scrivemmo tempo fa che Greta Thumberg avesse ragione ad incazzarsi con i rappresentanti della nazioni per la loro inanità, che era ovviamente espressione, però, dell'inerzia sociale con cui ci si approcciava alla transizione ecologica, poiché per molti avrebbe voluto dire fare rinunce oggetti per investire in futuro. Oggi, con la COP 26, Greta continua ad essere incavolata ed ad accusare il consesso delle nazioni di sostanziale immobilismo. Con lei il movimento dei Friday for future che un po' dappertutto oramai si è diffuso. Questa volta, però, nel nostro piccolo, ci permettiamo di non essere concordi con l'eroina svedese e siamo pronti ad essere iscritti nella lista dei cattivi, come tutti quelli che provano a dissentire dai beniamini dell'opinione pubblica. Non è vero che in questi anni non si è fatto nulla per contrastare le emissioni di CO2, specie in UE, e non vero che non si sono presi impegni veri anche alla COP 26. E' vero, però, che spesso, diversamente da quello che indicava la Scienza e che la Thumberg invitava in passato a seguire, non sempre si sono fatte scelte razionali, ma si è iniziato a perdersi in una certa trita retorica ambientale anche da parte dei ragazzi dei Fridays, per esempio quando inneggiano all'agricoltura biologica o non contemperano gas, bios e combustibile da rifiuto tra i mezzi per contrastare l'aumento di CO2 o si demonizza la Cattura di Anidride Carbonica - che è lo strumento vero per intervenire con rapidità sulla componente antropica del cambiamento climatico (anche se le emissioni di CO2 fossero azzerate domani, gli effetti perdurerebbero, senza una riduzione rispetto quanto già emesso). Inoltre come abbiamo più volte visto, la transizione energetica spesso si accompagna a nuovi, diversi e talora molto più impattanti processi di sfruttamento delle risorse naturali, basti pensare alle esigenze di minerali che le tecnologie energetiche non a combustione richiedono, per altro spesso anche a scapito di popolazioni già economicamente debolissime. Ossia, non possiamo  fare la transizione ecologica a scapito dei più deboli cara Greta, tenuto conto che spesso sono gli stessi che sono stati oggetto di una distribuzione delle risorse già squilibrata fino ad oggi, così come non possiamo non pensare ai risvolti sociali, anche in termini di riconversione produttiva e di forza lavoro che l'economia verde irrimediabilmente si porta dietro, e questi passaggi non possono essere traumatici e sopratutto non si possono fare sulla pelle dei soliti noti. Capiamo Cara Greta - e non lo diciamo con fine denigratorio, ma solo a mero titolo di constatazione - che una benestante attivista borghese scandinava - non abbia chiaro il problema del proletariato sudamericano, piuttosto che di quello asiatico o anche delle classi deboli nella ricca UE. Ma chi Governa -ed leggittimato in questo - ci deve pensare per forza. Guai altrimenti. Per cui, con la transizione ecologica, Greta, Adelante, Adelante, con judicio.

domenica 8 agosto 2021

Fino all'ultima goccia

La risorsa idrica, è noto, è quanto mai essenziale per la sussistenza della vita su questo pianeta e per la salubrità dell'ambienta antropico. Cambiamento climatico, pressione demografica, inquinamento, gestione inefficiente, sono tutti fattori che minacciano nel medio termine l'adeguatezza alle necessità delle risorse idriche. 
    Si stima che nel 2025 quasi 2 miliardi di persone, per lo più in Africa e Medio Oriente si  troveranno in situazione di scarso o nullo accesso sicuro a fonti d'acqua potabile. Nei decenni successivi il problema potrebbe arrivare a toccare metà della popolazione mondiale. Un simile situazione è ovviamente fortemente destabilizzante da un punto di vista sociale, in quanto foriera di epidemie, migrazioni di massa (per altro in parte già in atto) e conflitti. I prodromi di questo scenario non mancano certo oggi.
    E' necessario avviare inziative su scala globale di tutela delle riserve e di una loro efficiente gestione.
   L'acqua potabile non può più continuare ad essere utilizzata in maniera massiccia per attività ricreative, antincendio, pulizie e igiene e irrigazione, in assenza di meccanismi di recupero come oggi.
    L'uso irriguo ha in particolare un peso molto importante nel consumo d'acqua, il 70-80% su scala globale. Di converso, mentre si assottigliano le riserve idropotabili, aumentano i flussi di acque reflue di depurazione; questo è un segnale positivo, poiché indicano il progressivo aumento della capacità globale di trattamento reflui e acque di scarico urbane e industriali. Ovviamente il dato non è equamente distribuito a livello mondiale. Ma ci sono segnali incoraggianti un po' dappertutto. Uno studio di recente pubblicazione su WATER fa un po' il punto della situazione. Al 2012 in Cina, veniva registrata un produzione di 68,5 miliardi di metri cubi di acque di depurazionie, pari alla portata dell'intero Fiume Giallo. Nei paesi africani si inizia a vedere l'insediamento di diversi impianti di trattamento, con produzioni in crescita, per esempio l'Egitto che sempre al 2012 mostrava già una produzione di 5 miliardi di metri cubi.
    Queste acque possono essere un valido sostituto delle riserve idropotabili naturali ai fini irrigui. Ovvio che, per tale scopo, è necessario un processo di trattamento che veda la rimozione dei solidi sospesi, la riduzione della domanda di ossigeno biochimico e chimico (BOD e COD), quindi della presenza di sostanza organica e successivamente di quella di inquinanti vari, metalli pesanti in primis,  ma anche dei cosidetti "inquinanti emergenti", come per esempio i PFAS, ormai fin troppo noti purtroppo, e affini.
    L'affidabilità, l'efficienza e la verificabilità del processo di trattamento sono ovviamente fondamentali, così come tutto il processo di gestione e controllo e monitoraggio parametrico  delle acque per loro conformità prima del riuso. Sono alle cronache recenti casi di mala gestione di fanghi e reflui di depurazione, a dimostrazione dell'importanza della tracciabilità dei flussi e dei controlli.
    L'uso delle acque di depurazione è ormai crescente in UE dal 1999 al 2014, tale pratica è cresciuta dal 10 al 29% del consumi idrico complessivo, nel medesimo periodo negli USA e in Cina  la crescita è stata del 41%. In questa classifica, a livello europeo, l'Italia è seconda dopo la Germania.
    Proprio per la rilevanza che tale pratica sta assumendo, sono diventati numerosi gli studi di valutazione degli impatti e dei rischi per l'ambiente e la salute. La WHO (World Health Organization) e la FAO  (Food Agricolture Organization) hanno emanato  diverse linee guida per poter rendere più diffusa e controllata questa modalità di riuso delle acque. In vari paesi, Cina ed Egitto particolarmente, ma anche in Australa, USA, UE, sono state condotte campagne di analisi per individuare i parametri fondamentali da monitorare nelle matrici suolo e acqua al fin di stabilire gli effetti delle acque di depurazione negli usi irrigui. Si sono monitorate sia le matrici che le colture. I parametri principali oggetto di monitoraggio sono stati:
  •  SALINITA' e ALCALINITA': le acque di depurazione spesso hanno valori più elevati rispetto alle "primarie" (ossia quelle potabili o comunque da riserve idriche naturali), questo può alterare l'alcalinità del suolo, con variazioni nella permeabilità, nel chimismo, dando origine a fenomeni di lisciviazione o decarbonatazione in determinati casi, con risvolti negativi per le colture. Tale problematica può essere contenuta sia tenendone conto nei processi di depurazione, sia affiancando all'uso irriguo di queste acque l'utilizzo di ammendanti e fertilizzanti organici in modo da controbilanciare immediatamente gli effetti.
  • SOSTANZA ORGANICA e METALLI PESANTI: se il trattamento di depurazione non è adeguato o i parametri tecnici non sono stringenti, le acque di depurazine possono avere valori medi, rispetto al suolo naturale, più alti per tali parametri. Gli effetti in tal caso possono andare dall'acidificazione dei suoli, alla diffusione di patogeni, a fenomeni di bioaccumulo nelle colture con effetti sulla saluta umana nel medio - lungo termine. In questo caso  solo la buona gestione tecnica degli impianti di depurazione e il monitoraggio successivo possono evitare la problematica.

    Studi ormai pluriennali sull'uso di acque di depurazione confermano che, se queste derivano da processi monitorati ed efficenti, questo migliora diversi parametri del suolo in termini di fertilità, attività biologica e chimica con aumento della produttività e dei valori nutrizionali delle colture. Il che ovviamente con risparmio di risorse idriche. Per altro, parrebbe inoltre, sempre dalle evidenze in campo, che se l'irrigazione con acque di depurazione è praticata con sistemi fissi, a splinker, a livello campagna, i risultati siano massimizzati.

    Concludendo, il beneficio dell'uso di acque di depurazione appare palese, stante le evidenze sperimentali su larga scala ormai pluriennali, purché associato a sistemi di depurazione egestione dei reflui efficienti e controllati (in caso di malagestione invece gli effetti possono davvero essere disatrosi - ed essere connessi a fenomeni dichiaratamente criminali). E' perciò necessario, vista la commercializzazione su scala globale di prodotti agrotecnici, la necessità di un sistema di regolazione e controllo universale per tale pratica, con elementi di controllo e standard di monitoraggio che devono essere inevitabilmente condivisi e unitari.

martedì 1 giugno 2021

Non facciamo Economia della Geologia

V'era un tempo in cui esisteva la Geologia Economica. E c'è ancora. Ma questa disciplina è solitamente legata ai concetti di quantificazione delle risorse, sopratutto di tipo minerario. Oggi con le necessità di metalli pregiati per le nuove tecnologie siamo a una sorta di seconda giovinezza, dopo i fasti del boom petrolifero. Il rapporto, quindi, tra Geologia ed Economia fino ad oggi è stato di tipo utilitaristico. La Geologia come strumento di quantificazione di beni e utilità. Oggi questo rapporto potrebbe, ma sopratutto dovrebbe, cambiare, verso una sorta di "collaborazione" tra le due discipline per l'elaborazione di un modello di sviluppo economico diverso, in particolare di nuovi parametri economici che tengano conto della sostenibilità ambientale. Ossia la Geologia che rielabora gli indici economici per legarli anche al costo ambientale da essi rappresentato, in termini di emissioni di CO2, consumo di matrici ambientali...

Se solitamente si ritiene di rappresentare il modello economico capitalista come il più ambientalmente rapace, poiché si ritiene, correttamente o meno votato alla massimizzazione del profitto a scapito del benessere sociale e ambientale e ovviamente a favore di un gruppo ristretto è pur vero che la situazione  è più complessa. Un'analisi delle economie pianificate, rileva come l'impatto delle stesse sull'ambiente sia stato e sia tutt'altro che modesto, basti pensare al contributo alle emissioni di CO2 dato dalla Cina con l'avvio massiccio dell'uso del carbone, o il degrado ambientale generato dalle attività industriali sovietiche. Ciò si è dovuto sia spesso alla scarsa tecnologia adottata, sia una sostanziale necessità di ottenere determinati standard produttivi a prescindere dalle ricadute ambientali e sociali aggiungiamo. Riteniamo che ciò si debba, però, per lo più al fatto che i regimi con economia pianificata sono stati e sono NON democratici, per cui non vi è possibilità che l'opinione pubblica possa in qualche modo operare in tal senso, così come organi a ciò preposti.  Nelle più democratiche società capitaliste alla fine scatterebbero dei meccanismi legati alla presenza di informazione libera e di organi indipendenti, che andrebbero a bloccare le attività economiche eccessivamente ambientalmente negative (spesso, però, ciò avviene con la mera delocalizzazione delle stesse, proprio in contesti governativi più "duttili"). Ciò è vero fino a un certo punto, poiché non mancano anche nei paesi a economia di mercato esempi di modelli economici ambientalmente perniciosi e di politiche di fatto portanti al peggioramento globale per l'ambiente. Vedi il recente esempio delle politiche di Trump che certo socialista non era.

Infatti, nelle economie di mercato è il PIL l'indicatore che misura il benessere generale e un buono stato dell'economia. Ma è questo indice corretto rispetto alle esigenze odierne? Non trascura  la misurazione di taluni indicatori di sviluppo che sono oggi fondamentali? Il Pil per come è concepito oggi, può serenamente certificare che un determinato stato sta pompando sulla produttività, ma questo potrebbe avvenire con estremi impatti ambientali. Vedi il caso di molti dei paesi "in via di sviluppo". Che fare quindi? Ripensare il modello economico? Abbracciare l'utopica decrescita felice e abbandonare il mito della produttività? Dubitiamo che ciò porterebbe al mantenimento della sostenibilità degli Stati sociali nel medio lungo termine anche negli stati più floridi. Va quindi ripensato il PIL. Agli attuali parametri di calcolo vanno aggiunti anche elementi come le tonnellate equivalenti di CO2 emesse e il differenziale delle stesse rispetto agli anni precedenti, i danni da eventi meteorici estremi, i costi per il contrasto all'erosione costiera gli oneri pluriennali per la bonifica dei siti contaminati e la gestione post mortem delle discariche, gli impatti della transizione energetica. Insomma, va impostasta una "nuova contabilità ambientale". E i Geologi devono iniziare a studiare Economia. E ripensarla.

lunedì 8 marzo 2021

E' sempre più verde la transizione degli altri

Il tema della "transizione ecologica", ovverosia sia il passaggio dall'attuale modello socio-economico e tecnologico a uno meno energivoro, a ridotte emissioni di CO2, o meglio con saldo di emissioni di CO2 circa 0 è quanto mai di stretta attualità e impellenza. Addirittura noi italici ci abbiamo persino dedicato un ministero. Di solito, però, quando una cosa diventa un "Ministero", significa che diventa più complicata e inconcludente. Speriamo bene. Va detto che questa tensione alla transizione, spesso fa intraprendere politiche o vie di sviluppo non sempre coerenti, in alcuni casi vi sono passaggi troppo bruschi, in altri casi si fanno voli pindarici, in alcuni si cade nel velleitarismo, in altri si fanno scelte poco avvedute. Basti pensare, per esempio, alle preclusioni sull'uso del gas per la transizione o alle mancate efficientazioni energetiche o alla corsa alle tecnologie verdi, che così verdi talora non sono. Due esempi di come si dovrebbe essere prudenti e ponderati sul tame ci vengono dall'uso del combustibile da legname e dal tema delle auto elettriche.

Partiamo con l'uso del legno per produzione di energia. La pratica di sfruttamenti sostenibili di boschi per questo tipo di attività sta diventando molto diffusa nelle repubbliche baltiche e in Russia. Si tagliano boschi in maniera selettiva e il legno è lavorato per essere usato come combustbile in centrali energetiche, mentre le piante tagliate sono sostituite di nuove. Teoricamente questo processo si ritiene siana saldo 0 in termini di emissioni di CO2. Tagli un albero "adulto" e lo bruci, lo sostituisci con piante giovani, che nella crescita assorbiranno anche più CO2 di quanta ne è stata prodotta con a combustione del loro predecessore. C'è un, però. Questo "saldo 0" di anidride carbonica non è istantaneo. E' più un "mutuo", io spendo la CO2 ora bruciando l'albero, e te la rendo poco a poco con l'assorbimento delle piante giovani. Un articolo recente del Guardian, proprio sulla gestione di queste risorse in ESTONIA, evidenzia come questo squilibrio temporale, di fatto, mini la sostenibilità dell'intero processo, ed anzi lo renda controproducente. Infatti la liberazione della CO2 adesso, per la combustione degli alberi, peggiora ADESSO la problematica dell'aumento di questo gas serra nell'atmosfera, aggravando gli effetti connessi. Il "ripagamento del debito" è differito nel tempo, quindi, si rischia che i suoi benefici arrivino troppo tardi, quando ormai il danno è bello che fatto. Le prime evidenze sembrerebbero dismostrarlo. Oltre al fatto che comunque si generano non pochi impatti sui boschi e la fauna con questa pratica di "coltivazione". Quindi, che si fa? si lascia perdere? Se si abbinasse a questi modelli, ossia dell'uso del legno nelle centrali a biomasse, un recupero di calore dei processi di combustione, per sostenere parti di riscaldamento delle utenze urbane, forse la pratica recuperebbere il suo valore ambientale.

 Vi è poi il tema dell'auto elettrica, o più in generale del settore tecnologico. Come mostra un articolo tratto dall'Astrolabio - ma ve ne sono ormai molti di disponibili, anche questa strategia ha i suoi bei coni d'ombra, oltre la retorica e la propaganda. C'è, in primis, il tema delle emissioni di CO2 derivate dalla fase di produzione delle batterie. Vi è poi il tema dell'estrazione dei minerali che servono per tale componenstica, che spesso avviene in miniere in paesi in via di sviluppo in cui il degrado ambientale e lo sfruttamento sociale sono estremi. Anche qui i problemi ci sono e vanno dichiarati, per poter essere compiutamente affrontati. Inoltre la qustione dell'approvvigionamento delle terre rare e degli altri minerali usati nelle tecnologie cosidette "green", ha grandi implicazioni geopolitiche e sta generando conflitti latenti o palesi per l'accaparramento di tali risorse. E' necessario che vi siano delle regole condivise per le metodologie di estrazione e che si arrivi a una sorta di "certificazione di origine controllata" sui minerali estratti, in modo che si sia certi che l'estrazione è avvenuta secondo criteri di responsabilità ambientale e sociale, ma questo richiede regole certe e strumenti di controllo e sanzione effettivi, laddove necessario. Inoltre, forte efficienza, quando i beni costruiti con questi minerali sono a fine vite, è necessario vi siano adeguate impiantistiche per il recupero degli stessi, onde appunto  evitare monopoli neli approvvigionamenti. Insomma un ripensamento complessivo dello sbandierato "green new deal", che non si fa ne solo con le buone intenzioni, ne senza rompere qualche uovo e sopratutto di certo non a slogan.