lunedì 9 ottobre 2023

#Vajont60

 #Vajont23. Non possiamo non interrogarci su questo evento, non possiamo non mantenerne vivo il ricordo e far sì che sia un monito perenne nel rapporto col territorio, nella gestione delle infrastrutture e delle emergenze e nella capacità di dialogare con le comunità locali. Se oggi esiste una diffusa ostilità alle Grandi Opere e diffidenza nelle istituzioni in questi temi, non lo si deve solo alle strumentalizzazioni di parte, ma anche al fatto che c'è stato il Vajont.

Da "La Stampa" del 9 ottobre 2023

Vajont, il reportage diventato storico: “Un paese che non esiste più”

Longarone spazzato via da una valanga d’acqua, al suo posto una distesa piatta coperta di fango. Tremila vittime, un disastro di proporzioni immani

Ripubblichiamo il reportage uscito su La Stampa l’11 ottobre 1963 e diventato storico: il giornalista Giampaolo Pansa, inviato speciale, fu tra i primi ad arrivare a Longarone dopo la tragedia del Vajont. Raccontò la valle distrutta dall’acqua e quel che restava di una comunità spazzata via in pochi istanti

Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza; sino a questa sera erano stati recuperati cinquecentotrenta cadaveri. I feriti ricoverati a Belluno, ad Auronzo ed a Pieve sono quasi duecento. Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Dal terremoto di Messina non si era più visto in Italia nulla di così orrendo.

Tutto è accaduto in meno di dieci minuti. Longarone è un piccolo comune della vallata del Piave, a venti chilometri da Belluno. Sino a ieri contava oltre quattromilacinquecento abitanti. Lo sovrastava una diga della Società Adriatica di Elettricità (Sade), finita di costruire nel 1960, alta 261 metri, a doppia armatura, la più alta nel suo genere in Italia e una delle più alte del mondo. Il bacino raccoglieva (e raccoglie, perché è rimasto intatto) le acque del torrente Vajont, un affluente di sinistra del fiume Piave.

«Una diga nata sfortunata - diceva oggi uno degli scampati alla sciagura -, perché si trova sotto un monte che si sfalda facilmente». Secondo voci raccolte a Belluno, pare che si fosse progettato di costruirla già attorno al 1925; poi i lavori erano stati sospesi perché sembra che i tecnici avessero il timore che i monti Toc e Duranno, che dominano il torrente, potessero crollare. Sempre secondo voci che circolano a Belluno, due anni fa, a Pasqua, si sarebbe registrato un lieve cedimento della roccia sopra la diga, senza conseguenze. All’inizio di questo settembre, poi, un sordo boato avrebbe fatto tremare i vetri delle case di Longarone. In quella occasione la gente disse che era la montagna che si muoveva. Negli ultimi giorni il livello dell’acqua nel bacino era stato abbassato di 21 metri rispetto a quello normale, come misura di precauzione. Si vedevano frane sulla montagna e alcune famiglie del comune di Erto e Casso erano state invitate a sgomberare per prudenza.

Quanto alcuni temevano è avvenuto ieri sera alle 22,35. Parte degli abitanti di Longarone già dormivano; altri s’erano raccolti nei bar, attorno ai televisori, per assistere alla partita di calcio fra il Glasgow e il Real Madrid; altri ancora ai trovavano al cinema a Belluno. Ad un tratto, quelli che erano svegli udirono un sordo boato e avvertirono come un soffio fortissimo di vento che spazzava la vallata. Una enorme falda della montagna era precipitata nel bacino del Vajont. Un’onda gigantesca si sollevò sopra la diga e tracimò, riversandosi sul corso del Piave con una violenza spaventosa. A giudicare dai segni lasciati sui versanti, doveva essere alta più di cento metri.

La diga era robusta e resistette. Dopo avere raso al suolo le frazioni di Rivolta e Villanova, l’enorme massa di acqua e roccia si schiacciò contro il concentrico di Longarone e la frazione di Pirago, portandosi via case, strade, ferrovia, argine, alberi. Un istante dopo l’ondata si lanciò a valle, investì la borgata di Faè e proseguì la sua corsa rovinosa verso Belluno e Ponte nelle Alpi. Mentre la valanga d’acqua scendeva dalla diga, a Belluno mancò la luce. Dopo dieci, quindici minuti in città e a Ponte nelle Alpi gli abitanti che si trovavano ancora per le strade si accorsero con terrore che il livello del Piave era salito all’improvviso, in modo pauroso, tanto da sfiorare le arcate dei ponti. Al chiarore incerto della luna i passanti scorsero che l’acqua ribollente trascinava tronchi di abeti, tralicci dell’alta tensione, rottami, travi, automobili, e corpi, molti corpi, straziati e privi di vita.

«Si capì subito che doveva essere accaduto qualcosa di terribile dalle parti di Longarone», racconta un giovane bellunese che accorse con i primi verso i paesi distrutti. «L’acqua copriva quasi per intero la strada; nel buio si sentivano grida, lamenti, invocazioni di aiuto. Avevamo delle pile tascabili, ma la loro luce era troppo fioca. Infatti ogni tanto qualcuno di noi inciampava in qualcosa di molle: era un ferito, più spesso un morto. Lo trasportavamo sul ciglio interno della statale e andavamo avanti alla cieca. Scorsi per primo il cadavere di una bambina, poi un paesano di Faè che era ancora vivo ed urlava, poi altri morti, ed altri morti ancora. Il paesaggio era stato cambiato in pochi istanti dalla violenza della ondata. Avevo percorso quella strada tante volte, ma non la riconoscevo più. Quando arrivammo in vista di Pirago e riuscimmo ad orientarci, la visione fu terribile: Pirago e Longarone erano scomparsi. Dove prima sorgevano i due paesi ora c’era soltanto una distesa piatta coperta di fango, di tronchi, di arbusti» (...). Stamane abbiamo percorso i cinque chilometri di valle sconvolti dall’acqua della diga. I segni del disastro s’incontravano ancor prima di Belluno: sul ponte nei pressi di Sussegana, dove centinaia di persone guardavano sgomente l’improvvisa piena del Piave, reso quasi nero dalla terra, dagli alberi, dai rottami; a Cadola, con la riva sconvolta, coperta di arbusti e legname fradicio, i campi coltivati invasi dal fango, una cascina sventrata; a Ponte nelle Alpi, dove fra le boscaglie si scorgevano i militari arrancare lungo la scarpata con tre, quattro, cinque barelle su cui stavano corpi straziati. Ma soltanto dopo Belluno, giungendo a Faè, ci siamo resi conto delle immani proporzioni della sciagura.

Faè, l’ultima frazione di Longarone investita dalla gigantesca ondata, è quasi tutta distrutta. Aveva ottanta abitanti: forse soltanto una decina di essi si sono salvati. Le colture sono sepolte sotto una coltre di melma; i pochi alberi ancora in piedi non hanno più foglie. Della chiesa sono rimasti soltanto i quattro gradini dell’ingresso. Dove sorgeva la villa di un industriale ora c’è una vasta pozza d’acqua fangosa. Di fianco c’è una montagnola di terriccio che ieri non esisteva. È come se il paese fosse stato appiattito da una gigantesca manata (...).

Siamo su un piccolo poggio. Di fronte a noi è come un vasto anfiteatro, brullo e piatto. Qui sorgeva Longarone. Uno degli abitanti ci mostra sgomento quello che ormai non c’è più: «Laggiù in quella conca, dove ora siedono gli alpini, stava la stazione ferroviaria. Al posto di quell’acquitrino c’era il parco Malcom, con i giochi per i bambini. Più in su sorgeva l’edificio delle scuole di avviamento, là dove c’è quel vuoto con grosse pietre». La stessa fine hanno fatto decine di case, diversi bar, l’ufficio postale, le sedi della Banca Cattolica del Veneto e della Cassa di Risparmio, la scuola elementare e la scuola media, il canapificio, la fabbrica di occhiali, la cartiera, la segheria e la fabbrica di marmi, il campo sportivo, la caserma dei carabinieri (...). La diga ha resistito all’urto della enorme frana di terriccio, ma qui a Longarone la poca gente che è rimasta vive con il cuore in gola (...). C’è chi piange in silenzio, e chi grida, come una giovane signora che si è gettata di corsa nel fango verso la casa scomparsa del fratello, urlando il suo nome fra le lacrime.

Di seguito un video realizzazione dell'Università di Padova, per far sì che la memoria non sia solo esercizio di retorica



venerdì 21 luglio 2023

Estate Radicale

I Compagni Radicali avranno molti difetti, ma di certo non difettano in passione, impegno e tempismo. Hanno lanciato in questi giorni la campagna "Falla fuori" finalizzata al rilancio dell'impegno diretto dei cittadini su alcuni dei grandi temi dei nostri tempi attraverso sei proposte di legge di iniziativa popolare. Per quanto spesso le proposte di legge di iniziativa popolare si perdano negli anfratti parlamentari, nonostante i grandi sforzi per la raccolta delle firme, continuare ad avviarne è, indubbiamente encomiabile, per ostinazione e passione, a prescindere da come uno si schieri. E sebbene il Geologo Proletario sia certamente meno liberista del compagno radicale, non si può non averne rispetto e ammirarne l'impegno. 

Questa campagna radicale si articola in 6 proposte di legge su vari temi. Ce ne sono due che non posso non destare attenzione della comunità delle Scienze della Terra e sulle quali sarebbe bene, e si invita caldamente a farlo, che sia gli Ordini Professionali dei Geologi - ed in generale delle professioni che hanno a che fare col territorio - sia gli studenti che le strutture dei vari dipartimenti universitari di Geoscienze, si dedicassero ad un sano confronto ad una presa di posizione precisa.

La prima riguarda il consumo di suolo, partendo dall'assenza di una legge naturale sul tema, quanto mai critico, ricordando la fragilità e l'indispensabilità di tale risorsa, la proposta di legge propone di istituire, su base regionale, precisi impegni in tema di cartografia, monitoraggio, tutela e ripristino, attraverso strutture dedicate e pianificazione responsabilizzando sia i cittadini che le istituzioni locali, la legge approccia in modo pragmatico il tema, proponendo una modifica del D.Lgs 152/06, se è pur vero che alcuni dei punti proposti sono forse ridondanti con normative nell'ambito della Protezione Civile e del Dissesto Idrogeologico, la legge pondera abbastanza bene i vari aspetti, sia pianificatori, che finanziari e gestionali.  Particolarmente di rilievo l'importanza che viene data alla cartografia di vario tipo sul tema e al suo costante aggiornamento. Piccolo neo, nell'articolo delle definizioni, quella sul suolo è un po' troppo antropocentrica, sarebbe stato meglio elencare sommariamente i processi chimici e biochimici che avvengono nel suolo e ricordarne la fondamentalità per il sostegno della biosfera nel suo complesso, non limitatamente alle sole attività umane.

La seconda riguarda la sburocratizzazione dei processi autorizzativi per gli impianti di produzione energetica, attraverso un radicale riordino delle competenze. Partendo da una riforma in tal senso dello specifico articolo del titolo quindi della Costituzione. In effetti troppo spesso i processi autorizzativi, non solo per questo tipo di impianti, ma in generale per tutta una serie di attività legate alla Transizione energetica e ai processi di adattamento al cambiamento climatico, sono letteralmente in balia della cavillosità della nostra burocrazia e della parcellizzazione e talora contraddizione delle competenze. In coerenza con i suoi intenti semplificatori, la norma è di un solo articolo.

Diamoci una letta. E magari una mossa.

giovedì 29 giugno 2023

Nemmeno l'Alluvione lava la testa ai somari.

C'è un antico proverbio che dice "a lavare la testa all'Asino, si perde tempo, acqua e sapone". Esiste anche una variante che aggiunge "e si infastidisce la bestia". Un modo per dire che per quante argomentazioni buone si abbiano, ogni discussione è inutile con gli ostinati nel pregiudizio, alla fine se ne ricava sangue amaro o liti. Mi è venuto in mente ascoltando taluni dibattiti o leggendo alcuni articoli all'indomani della terribile alluvione emiliana.

Non saprei come altro commentare altrimenti talune uscite. In primis è ampiamente criticabile la strumentalizzazione politica del post alluvione, che si traduce in farraginosità delle azioni di intervento post evento, basti pensare alla lunghissima gestazione per la nomina di una struttura commissariale, quanto mai necessaria, ma preda dei veti e controveti delle varie forze politiche, e l'organizzazione dei soccorsi e delle riparazioni. Il Governo in carica fatica a collaborare con le istituzioni locali di colore diverso dal suo. Vi è poi la stigmatizzazione del "modello emiliano" circa la gestione del territorio, come se altrove, da nord a sud, da un colore all'altro, si sia fatto di meglio, come se l'antropizzazione bulimica degli spazi non fosse bipartisan.

Altra insensatezza, figlia anch'essa dello scontro ideologico preconcetto, della logica di fazione e di una pervicace assenza di conoscenze di base, è la contrapposizione manichea tra chi ritiene il disastro figlio del cambiamento climatico e chi del consumo di suolo. Ciascuno argomentando a modo suo. 

Come se le due cose non fossero entrambe manifestazioni esteriori del medesimo modello di sviluppo divoratore e insostenibile. In ambo i casi le risposte sono ideologiche, non razionali e controproducenti.

Il problema è, infatti, che questo tipo di dibattito e le campagne ambientaliste per un Transizione Ecologica "hard", fatte a suon di misure draconiane, alla fine paiono favorire proprio il pensiero avverso al ripensamento del nostro modello socio economico.

E' evidente che politiche di transizione energetica, basate su inni alla catastrofe che impongono misure onerosissime, pesanti, in lassi di tempi ristretti e rifiutando determinati supporti tecnologici, senza adeguata contezza delle ricadute sociali che esse hanno, generano fortissimi malumori proprio nelle fasce più deboli.

Face deboli della società che spesso vivono sia in ambiti urbanizzati degradati, soffrono gli effetti del cambiamento climatico e si ritrovano a pagare il dazio di sopportare taluni effetti delle misure di transizioni ecologica, qui la propaganda delle destre clima-negazioniste  ed antiambientaliste attecchisce molto; questo porta la questione ambientale a diventare socialmente invisa e a tirare la voltata proprio ai movimenti no euro e "no Greta" per semplificare.

Si rischia che l'UE che uscirà dalle europee 2024 sia a maggioranza euro-tiepida e sostanzialmente molto poco green friendly, il che significherebbe un sostanziale arretramento sia nel campo dell'integrazione europea che nel processo di trasformazione verso un modello socio-economico più sostenibile. Un trionfo.

Lo sviluppo urbano ha portato all'impermeabilizzazione di ampi porzioni di suolo, alterato la rete idrografica, acuendo fenomeni di dissesto ed il rischio idraulico, non che favorito la creazione negli ambiti urbani di microclimi insalubri; il cambiamento climatico - reso più repentino dall'alterazione antropica della composizione atmosferica - comporta l'estremizzazione dei fenomeni metereologici ed un cambiamento profondo nei regimi pluviali. Il mix di questi fattori in una situazione di oggettiva lentezza ed incertezza nella messa in atto di misure per l'adattamento climatico e la riduzione dell'impatto antropico, porta a effetti catastrofici.

Bisogna riguadagnare le masse alla causa ambientale, ma non si può farlo con la retorica, l'ideologia, l'estremizzazione delle misure. Serve dialogo, informazione, attenzione alle dinamiche territoriali, grande pragmatismo, capacità tecnologica, coinvolgimento del mondo produttivo, fortissima attenzione ai ceti deboli. Rigore scientifico. 

Se si pensa di fare la svolta ambientale con la propaganda, sarà solo la Reazione a trarne vantaggio. E tutti noi a perdere.


lunedì 5 giugno 2023

Schizofrenia Geologica


Non saprei, onestamente, e prego di non volermene, davvero, come altro definire il Consiglio Nazionale dei Geologi, viste le sue ultime dichiarazioni se non Schizofrenico. Certo l'organo è borghese e reazionario, ma formalmente è pur sempre la voce dei Geologi in Italia, per cui, sebbene per me sia come ascoltare la voce del Vaticano,  quando, per bocca del Presidente fa certe affermazioni, non posso non sentirmene coinvolto. 

Come può essere che a distanza di pochi giorni si riesca a fare importanti affermazioni circa il dissesto del territorio e ai rischi indotti dall'artificializzazione spinta in talune aree, quali cause predisponenti a eventi calamitosi, che mixate con gli effetti del progressivo mutare dei trend delle precipitazioni, porta a esiti disastrosi come quelli recenti in Emilia Romagna, richiamando la necessità di un radicale cambio di rapporto con il territorio, anche attraverso la sua deartificializzazione laddove possibile e di poco appresso si vada, cinguettando con uno dei ministri alle infrastrutture, meno idonei al ruolo della storia repubblicana, discettando sulla volontà di voler dare ampia disponibilità nel processo che porterà alla realizzazione di un'opera estremamente impattante come il Ponte sullo Stretto di Messina? Il problema del Ponte non è tanto la questione sismica, non ho dubbi che ingegneristicamente la cosa sia fattibile, quanto l'artificializzazione di territorio che sarà necessaria per l'opera. I piloni si mangeranno ettari di aree oggi sgombre e la viabilità connessa segnerà un'ulteriore pesante impermeabilizzazione. in due regioni che si trovano ad avere fenomeni di dissesto pesanti, gestione idrica e ambientale in seria difficoltà, siti inquinanti ben lontani dalla bonifica ed interessate da processi incipienti di desertificazione. Per non parlare di una serie ormai cronica di criticità socio economiche. 

Orbene, davvero crediamo che i fondi che il ponte assorbirà non potrebbero trovare più proficuo ed efficace impiego? Davvero ci serve il Ponte per reclamare un ulteriore successo di un modello di sviluppo che fa delle infrastrutture spesso delle armi di distrazione di massa, anziché elementi di sviluppo sostenibile?  Queste sarebbero Sentinelle del Territorio? Mi sembrano più i secondini.

I Geologi vogliono davvero essere parte di ciò? Crediamo che dia autorevolezza stare "nella stanza dei bottoni" da commensali? Oppure crediamo al cambio di paradigma nel rapporto col territorio? Da quale parte stiamo? 

Forse è meglio se andiamo a farci vedere da uno bravo.

domenica 14 maggio 2023

Rabdomanzia portami via

    Il grande Filippo Turati diceva che le Libertà sono tutte solidali, non si può offenderne una senza offenderle tutte. In questo modo denunciava l'incipiente deriva autoritaria dell'Italia, evidenziando come la lesione di taluni diritti, ancorché riguardassero solo dei gruppi sociali ben definiti, fosse un segnale precursore dello smantellamento complessivo dello Stato di Diritto. Anche oggi dobbiamo essere consapevoli del fatto che tollerare l'attacco a un determinato Diritto fondamentale, quandanche non sia di nostro diretto interesse, apre la porta ad una progressiva erosione delle Liberta collettive, e quindi, prima o poi ne verremmo comunque coinvolti. 
    Lo stesso vale per la Libertà Scientifica e per i suoi principi fondamentali, basati sull'oggettività ed il pensiero razionale. Alla Turati potremmo dire che le Scienze sono tutte solidali, non se offende una senza offenderle tutte. Ecco perché, nel mio piccolo, cerco di evidenziare l'inconsistenza e financo la nocività della diffusione di pseudoscienze in ambito medico, come l'omeopatia, i deliri no vax, la disinformazione sui vaccini, il sostegno alle cure miracolose (Stamina, Di Bella...) che tali non sono affatto, oppure delle campagne di mala informazione sulle biotecnologie in ambito agrotecnico, al sostegno a pratiche esoteriche come il biodinamico, alle campagne sul "naturale" che alla fine in realtà portano solo a pratiche inconcludenti.  
    Mi ci spendo perché ho la consapevolezza che tollerare che circolino, significa sminuire e mistificare la Scienza Medica, piuttosto che la Biologia e le Scienze Agrotecniche, e prima o poi questo porterà a fare altrettanto con le Scienze della Terra. Ed infatti così accade. Pensiamo ai Terrapiattisti, ai Negazionisti Climatici (sebbene è noto che sulla transizione energetica io abbia posizioni non esattamente in linea con il mainstream ambientalista - non significa che non sia consapevole dell'azione antropica sull'Ambiente a scala globale - anzi proprio per questo vorrei che si facesse meno retorica e più pragmatica) e pensiamo anche ai No Siccità, quelli che (guarda caso spesso sono gli stessi dei giri no vax) che credono ad un complotto sull'acqua. 
    Ed alla fine arrivano i RABDOMANTI e qui vorrei dedicarci qualche parola. Ormai i media da mesi cercano di rendere consapevole l'opinione pubblica del problema della siccità che ormai da tre anni con intensità crescente riguarda l'Europa è particolarmente l'Italia, dove il fenomeno è particolarmente problematico per i nostri elevati consumi, gli sprechi e la nostra abitudine ad avere sempre acqua a volontà. Le istituzioni cercano di correre ai ripari con piani infrastrutturali che consentano nel contempo di immagazzinare acqua che gestire gli eventi di piovosità intensa (altro aspetto ormai peculiare nel nostro meteo), si inizia finalmente a mettere mano alle reti, si cerca di implementare depurazione e riuso, si parla di buone pratiche per ridurre i consumi. Ovviamente siamo in affatto perché sono tutte cose che si sarebbe dovuto avere la lungimiranza di fare prima. Come sempre, però, le cose che richiedono impegno prolungato e non sono particolarmente eclatanti in questo paese non hanno molta considerazione. Ci si ricorda poi solo ora dell'importanza della tutela e buona gestione della risorsa idrica sotterranea.
E qui arrivano le italiche "sorprese". In queste settimane sui media vari si susseguono con una certa frequenza le apparizioni dei rabdomanti, che ovviamente acquistano seguito sui social. I quali, presentati come professionisti del settore, sarebbero ben più utili dei modesti e inadeguati idrogeologi, che non sanno captare tutte le "energie" dell'acqua. Addirittura, quando un gruppo di ricerca costruisce un drone, in grado di eseguire rilievi aerei utili ad individuare falde acquifere accessibili, i media non trovano di meglio che chiamarlo "rabodmante elettronico". Li mortacci, verrebbe da dire. Tale è la credibilità che questi "professionisti" ottengono con questa visibilità che persino Enti Istituzionali si rivolgono a loro. A nulla valgono le reprimende che giustamente sono partiti da Accademia e Ordini Professionali, molto spesso gli organi di informazione creano artatamente una contrapposizione, dove questi ultimi sono rappresentanti solo come degli organi che difendono interessi di bottega a fronte dei sensibili ed eroici Rabdomanti che, animati da filantropico spirito, che voglio solo aiutare gli assetati. 
Ora non starò qui a spiegare perché la Rabdomanzia sia una pratica infondata, basata su superstizione, creduloneria e ciarlataneria scientifica, mi limito a lasciarvi un testo per informarvi. Mi limito a ricordare che tutti i test scientifici seri a cui si è sottoposta la pratica sono miseramente falliti.


Voglio però dire a tutti i compagni Geologi, ed in Generale ai vari studiosi e tecnici delle discipline delle Scienze della Terra, che non basta il comunicato stampa, o il commento sui social. Enti pubblici che buttano soldi pubblici in queste pratiche, vanno denunciati alla corte dei conti, alle Autorità competenti ed esposti al pubblico ludibrio, e vanno incalzate anche le forze politiche su queste questioni. Non si può stare zitti o usare troppe cortesie. Questi Enti finanziando tali pratiche - così come certi Istituti che sono arrivati addirittura a farci corsi - stanno di fatto RUBANDO soldi pubblici, che potrebbero essere usati per la manutenzione del territorio, la tutela della risorsa idrica, la formazione, il finanziamento della ricerca insomma, quello che davvero ha un'utilità.
E' un'azione necessaria, anche se mi rendo conto non necessariamente popolare. Troppo spesso la paura della contestazione, la paura di essere tacciati come censori di una mal intensa "libertà d'espressione e opinione" o di avere scarsa empatia, frena l'intervento razionale nel dibattito pubblico, lasciando campo libero ai vari propalatori di dottrine antiscientifiche, che spesso sono mossi da motivi piuttosto vili più che da filantropia e connessione con le energie dell'universo. Vanno smascherati e con loro le Istituzioni che fanno il loro dovere. Se non vogliamo trovarci in un futuro alla IDIOCRACY, quando qualcuno ci chiederà "e tu che facevi quando tutto questo è iniziato?"

(Articoli tratti dalla Stampa del 26 aprile).


 


domenica 12 marzo 2023

Come son da proletari OGM e GAS

Asserire oggi che gli Organismi Geneticamente Modificati e più in generale le biotecnologie applicate all'agricoltura e le estrazioni di gas, siano non tanto simbolo di un capitalismo multinazionale, quanto fattori di equità sociale e di supporto al proletariato, inteso come fasce economicamente più deboli, ovverosia, siano elementi che potremmo definire di Sinistra, non è cosa affatto scontata e per qualcuno, immagino, nemmeno plausibile. Proverò, con qualche dato alla mano perorare questa mia posizione, e cercherò soprattutto di spiegare il perché mi sia ardito a formularla.

Sono diversi gli studi autorevoli che evidenziano come l'agricoltura biologica abbia, a parità di superfici rese più basse e nessun particolare valore aggiunto nutrizionale. Ciò detto la stessa continua ad essere fortemente favorita dalle politiche comunitarie e nazionali e perciò a crescere in termini di superficie agricola impiegata. Un recente rapporto Istat evidenzia alcuni degli aspetti per cui la stessa è comunque appetibile agli agricoltori al netto di incentivi e del calo di resa. L'agricoltura bio è più costosa in termini di gestione, perché il mancato uso di fito farmaci e diserbanti rende necessaria una maggiore attività operativa (tralascio le discussioni sul fatto che il "verderame" non sia poi così "light" per l'ambiente), d'altro canto proprio il mancato uso di questi prodotti genera un risparmio agli agricoltori ed è meno produttiva in termini di resa delle colture, ma genera maggiori ricavi perché viene venduta a prezzi significativamente più alti dei prodotti "tradizionali" generando guadagni maggiori per i produttori. Ovviamente è "una certa" fascia di consumatori che si acquista bio, un target che si può definire "benestante".

I prodotti OGM consentono di ottenere rese maggiori con minori fabbisogni di terra, acqua, fitosanitari e possono essere "nutrizionalmente" potenziati, pratica già attuata in alcune aree del mondo e particolarmente utile in tal senso. Da menzionare, sempre fuori bio, l'agricoltura di precisione che attraverso l'impiego tecnologie quali il satellite, i droni, app varie consente di ottimizzare l'irrigazione, l'impiego di fitosanitari, le arature, i consumi, consentendo ai  produttori di ottimizzare i costi e aumentare le rese. I prodotti derivanti da queste pratiche sono sani, a minor costo e perciò accessibili anche a chi ha meno risorse a disposizione da spendere per l'alimentazione. Oltre che ambientalmente  più sostenibili.

Credo che il dibattito su questi temi sia stato ampiamente condizionato da un lato da ritardi nell'agricoltura tradizionale, che ha forse tardato in certi momenti verso l'innovazione, dall'altro dall'indubbia capacità di propaganda pro Bio, che ha saputo coagulare consenso nel mondo ambientalista, istituzionale e a livello mediatico, anche al netto delle evidenze scientifiche. A maggior ragione per tanto, oggi servi ricondurre a maggior razionalità la discussione sul tema delle politiche agricole.

Contro i combustibili fossili e i loro impiego soprattutto, molto si può, giustamente, recriminare. anche se, forse, in primis dovremmo recriminare contro noi stessi. Ma senza di essi non avremmo avuto energia a buon mercato, disponibile praticamente ovunque, elementi che sono stati indispensabili per migliorare la qualità della vita in modo ubiquitario. consiglio il libro "Elogio del Petrolio" per approfondire il tema. Ad oggi restano le fonti energetiche più accessibili nelle arre più povere e alle classi più deboli. L'accessibilità fisica ed economica all'approvvigionamento energetico, va attentamente considerato nei processi di transizione energetica, se non si vuole rischiarne la disparità sociale.

Secondo l'IPCC al 2050, anche nello scenario più ottimista (RCP 8.5) nel contenimento delle emissioni di CO2 il 30% del fabbisogno energetico sarà coperto da fonti fossili, GAS in particolare. Ad oggi in Italia, dove il 75% dell'approvvigionamento energetico è da fonti fossili, ed il gas complessivamente è il 40% circa, circa il 5% deriva da fonti nazionali. 20 anni fa coprivamo  circa il 20 e passa%. Poi si è preferito ridurre la nostra produzione a favore delle importazioni, con gasdotti e hub. E un anno fa ci siamo scoperti al guinzaglio di Putin ed oggi lo siamo di Azerbaijan, Algeria e Qatar, alla faccia del sovranismo e dei principi democratici dell'Occidente.

Le risorse nazionali oggi note (è dal 2008 che non esploriamo più) ci consentirebbero di coprire il 10% del fabbisogno nazionale, potremmo arrivare al 20% abbinando il biogas, ma è lecito aspettarsi che da una ripresa delle esplorazioni potremmo reperire riserve che ci consentirebbero di aumentare sensibilmente questo livello. Se abbiniamo politiche di ottimizzazione e risparmio dei consumi, contrasto alle emissioni fuggitive di metano, potremmo davvero ridurre in modo importante le importazioni da qui e nel medio lungo periodo.

Orbene, non occorre essere grandi tecnici per capire che estrarre in territorio naturale (attività in cui è opportuno ricordare la grande esperienza tecnica e professionale che questo paese può vantare) GAS sia ambientalmente ed economicamente più sostenibile e sicuro che approvvigionarsi da fonti estere, dove le instabilità geopolitiche possono, come abbiamo visto, generare speculazioni finanziarie pesanti, e vere e proprie limitazioni alla nostra indipendenza oltre che il rischio di dover barattare nostre scelte per metri cubi di carburante.

Instabilità e speculazioni che alla fine, anche queste, pagano sempre le fasce deboli, non dimentichiamocelo.

domenica 26 febbraio 2023

#SICCITA'




Riporto un articolo del Sole 24 ore di qualche giorno fa, che ben sintetizza l'urgenza della questione siccità e la necessità di non procrastinare ulteriormente pianificazioni e interventi. A più livelli. Perché mai come in questo caso, una dinamica ambientale critica, può metterne in moto di ben più tumultuose di sociali (P.F.)

25 febbraio 2023

 

Il Punto

La siccità, è ora di accorgersene

È passata un po’ in secondo piano, in questa nostra contemporaneità annichilita dallo spirito della guerra e dal terremoto, quando non dalle ben più misere baruffe chiozzotte della politica politicante.
Ma il tema della siccità è ormai parte del nostro quotidiano. E il presidente dell’associazione dei consorzi di gestione, Francesco Vincenzi, ha dato un allerta eloquente: 3,5 milioni di persone non possono dare per scontato che l'acqua esca dai rubinetti di casa loro.
Fino al 15% degli italiani vive in zone a rischio di siccità grave.
Non piove, non c’è neve, non ci sono riserve sufficienti. Ci vorrebbero 50 giorni di pioggia ininterrotta per colmare il divario ci dicono i meteorologi.
È un problema per l’agricoltura naturalmente che perde fatturato (fino a una decina di miliardi ad oggi) e vede azzerata l’efficacia di una rete di irrigazione che nella Pianura padana era un gioiello; è un problema per gli allevamenti; è un problema per l'energia idroelettrica che si blocca (e oggi copre il 20% del fabbisogno energetico italiano).
Il Governo annuncia di voler mettere a punto un piano d’azione. Ed è bene che parta con l’affrontare lo scandalo delle infrastrutture che in Italia disperdono più del 40% dell'acqua che dovrebbero convogliare. Per vetustà degli acquedotti, ma anche per dolo, perché dove è bene scarso l’acqua è fonte di ricavo per la solita criminalità organizzata.
L'importante è che il tema diventi una vera priorità. Italiana e internazionale: nel medio periodo le aree desertificate sono destinate a espandersi. È inevitabile immaginare un crescendo di esodi biblici di disperati assetati. E non sarà certo un decreto sulle Ong a fermarli.

di Alberto Orioli

 Il Sole 24 Ore