lunedì 15 aprile 2024

FA BENE O FA MALE? RAZIONALITA' e GEOLOGIA nelle FOODFAKE

Portate pazienza per questo titolo un po' in slang, ma anche questo vecchio rivoluzionario pleistocenico dobbiamo cercare di essere un po' cool ogni tanto (anche se gli esiti non ci paiono positivi).  Voglio consigliare la lettura di un testo che a prima vista potrebbe centrare poco con la Geologia e dintorni. Ma è sicuramente un bel testo per quanto riguarda il pensiero razionale e lo sviluppo di un buon senso critico e capacità di discernere le informazioni. In questo libro il chimico - divulgatore Bressanini, di cui già qualche testo vi segnalai, fa un viaggio attraverso alcune delle principali affermazioni riguardanti il mondo alimentare, al fine di rilevarne l'infondatezza, talvolta la nocività e spesso la precisa volontà di disinformazione a meri fini commerciali. Come afferma lo stesso autore, il testo non è un elenco completo di tutte le "food fake", ossia notizie artefatte sul cibo che circolano, ma una precisa selezione, volta soprattutto a fornire al lettore gli "attrezzi" per imparare a capire quando la decantazione di taluni effetti di certi alimenti è palesemente infondata e soprattutto come sapere distinguere le informazioni. Un METODO insomma, che nella società delle pseudoscienze e delle notizie artefatte è utile non solo nel campo alimentare. Dove per altro si diffondo spesso credenze, che "siccome non fanno male" sembrano innocue. Ma innocue NON sono in primis perché in ogni caso spesso portano a spendere soldi inutilmente, ma spesso a non dedicarsi a pratiche più salubri, che realmente potrebbero far bene. Tra l'altro un po' di Geologia c'è, nel testo, anzi più di un po'. Capitoli corposi sono dedicati alle acque da bere, di volta in volta vendute come acque "della salute" dai taumaturgici poteri e poi al Sale e in particolare al Sale dell'Himalaya, esempio di commercializzazione capitalistica, di un'evaporite. In entrambi gli argomenti viene raccontato come sono distorti, nei meccanismi della commercializzazione e della pubblicità i processi geologici di formazione di questi elementi e come vengano dati significati a elementi che in realtà sono presenti in tracce e che non hanno nessun effetto reale sul consumatore.
Lo stile divulgativo è piacevole e vi sono poi degli utili box di riepilogo. A mio avviso farebbe bene essere letto dai troppi salutisti della domenica e nelle scuole superiori. 
Smonta con fermo garbo molti luoghi comuni il cui unico effetto è farci perdere tempo e denaro.
E' probabile che dopo averlo letto non andrete più al supermercato allo stesso modo.

mercoledì 7 febbraio 2024

Col trattore a comandare (tra l'ipocrisia popolare)

E' una domenica mattina qualunque. Decido di fare la spesa, visto che in casa manca qualcosa. La settimana entrante si prevede intensa, gli altri familiari sono impegnati, approfitto per fare una spesa in serena solitudine. Fatto il giro, sono alla cassa. Davanti a me, vi è una signora con la spesa "grossa". Tra una chiacchera e l'altra esprime la sua massima solidarietà alla cassiera, costretta, a dire della signora, a forzato lavoro domenicale, quando potrebbe a buon diritto stare a casa a godersi la famiglia. Paga e se ne va. Tocca a me. La cassiera con un sospiro mi fa: certo che certa gente neanche si rende conto di essere ridicola. In fondo è così, l'ipocrisia all'eccesso, diviene ridicola e imbarazzante. La signora biasimava un sistema che richiedeva il lavoro domenicale della cassiera, perché c'è gente che privilegia la spesa di domenica. Esattamente come lei. Questa situazione non mi pare troppo dissimile a quella che si sta manifestando in questi giorni, durante le proteste degli agricoltori. 

Il plauso popolare che accoglie i trattori nelle città, espressione di un umore generalizzato per cui ogni protesta meriti appoggio a prescindere, specie se contro il Moloch Europeo - come sottolinea in un suo pezzo, seppur spigolosamente, il sempre puntuale e schietto Giuliano Cazzola - è quanto mai ipocrita.

Si badi, gli agricoltori hanno ragione a protestare per chiedere la giusta remunerazione del loro lavoro e nel contestare talune politiche del green deal europeo che, in nome di un approccio più ideologico che pragmatico scaricano su di loro gli oneri di una transizione ecologica condotta in modo non rapido, ma forsennato, hanno un po' meno ragione nel mettere in mezzo talune innovazioni come causa dei loro problemi o nel consentire che la loro protesta sia mescolata con movimenti complottari vari.

Ma il plauso pubblico è quanto meno fuori luogo, poiché sono anche, e non in piccola parte, i nostri comportamenti da consumatori ha determinare una quota parte significativa delle criticità attraversate dagli agricoltori oggi. Sono le nostre scelte sull'estetica dei prodotti che spesso genera ai produttori una forte frazione di scarto da gestire, sono i nostri comportamenti che spesso danno agio alla distribuzione di poter mettere alle strette il mondo agricolo sui prezzi d'acquisto. Così come sono le nostre adesioni a mode o a campagne mediatiche artefatte - olio di palma docet - che posso spazzare via interi settori agrozootecnici immotivatamente o determinare maggiori o minori bisogni di import di dati prodotti.

Alla fine ci siamo anche noi tra gli sfruttatori del mondo agricolo, cui portiamo oggi la nostra imbelle solidarietà, come quella della signora dell'inizio di questo mio vaniloquio.

Questa nostra solidarietà è inoltre una occasione persa, perché anziché fomentare il più o meno fondato risentimento degli agricoltori, dovremmo provare a riflettere con loro delle scelte errate fatte e in corso d'opera da parte delle Istituzioni, della Società e del medesimo mondo agricolo - basti pensare alle tante campagne della Coldiretti, fondate più su pregiudizio e protezionismo dal fiato corto, alla lunga rivelatesi assai controproducenti (e non è un caso se essa stessa oggi è contestata, e vorrei dire: finalmente!) - che qualche riflessione su se stesso la deve fare. L'agricoltura ha un impatto nel consumo di risorse e sulla sostenibilità delle produzioni. Demonizzare e negare i temi ambientali è, perciò, quanto mai errato. Lo sottolinea giustamente quella che, ad oggi, è ancora una delle migliori teste dell'ambientalismo quello serio, ossia Edo Ronchi, che invita il mondo agricolo ad aver contezza di come gli effetti del cambiamento climatico avranno, ed hanno già, un peso enorme sulla capacità del sistema agricolo e lo avranno sempre di più si in termini di quantità che di qualità delle produzioni. Strategie collettive e innovazione tecnica non sono eludibili in nome di vantaggi di corto orizzonte.

Certo, abbracciare acriticamente soluzioni più figlie di apparenza mediatica che di solidità tecnica, in nome di approcci più ideologici che ponderati è altrettanto deleterio. Soprattutto se non si valutano le ricadute sociali e gli scenari possibili. Lo ha ben espresso più volte, spesso in solitaria, spessissimo in tempi non sospetti, l'eroica Deborah Piovan che, con raziocinio ed una compostezza che non pare di questi tempi, più volte ha evidenziato come talune politiche della UE, per esempio quelle pro Biologico e sugli agrofarmaci, avrebbero profondamente messo in discussione la sostenibilità economica e ambientale del settore primario europeo, senza portare a benefici tangibili in termini di produttività o di contenimento degli impatti del settore sul clima e le varie matrici ambientali.

Ma si sa, a noi piacciono di più i guru, quelli delle belle parole e dei prediconi, che sanno affascinare anche Istituzioni spesso culturalmente e tecnicamente impreparate al governo di certi fenomeni, e che, però non rispondono mai degli effetti delle loro azioni, o delle campagne mediatiche di cui si fanno promotori, facendo leva sull'emotività dell'opinione pubblica, spesso senza supporto di dati o distorcendoli pur di supportare le proprie teorie, a scapito di innovazioni che, correttamente gestite potrebbero avere, vedi gli esempi delle biotecnologie  o più recentemente delle farine d'insetto.

L'agricoltura è fondamentale, letteralmente, per il sostentamento della popolazione mondiale, per il contrasto alla fame e alla povertà. Così come ha un ruolo non secondario verso un sviluppo ambientalmente più sostenibile su scala globale. E' necessario un vero coinvolgimento degli operatori del settore nell'elaborazione delle strategie di lunga durata che riguardano il settore, affinché trovino condivisione e siano efficaci. Ma il mondo agricolo deve porsi in un'ottica di apertura, di capacità di guardare, mi si passi la facezia, oltre al proprio orto, essere pragmatico e innovativo e non lasciarsi incantare dai pifferai della demagogia e della disinformazione.

mercoledì 10 gennaio 2024

Hasta siempre compagnero Charles

Ogni volta che mi imbatto in articoli, libri, dichiarazioni di contestazione o comunque messa in dubbio della "Teoria delle Specie" del buon Darwin, vado sempre un po' in agitazione.

In primis per una ragione, che potremmo definire, sentimentale. Charles Darwin divulga la sua Teoria in età molto avanzata, dopo anni di ragionamento, studio e approfondimento e dopo una gioventù d'esplorazione. Questo è per me ragione di speranza, mi da l'illusione di poter, ancora, lasciare un segno nel campo della conoscenza umana.

In secondo luogo, invece, per un motivo ben più sostanziale, l' Evoluzione delle Specie, è l'argomento razionale e oggettivo, più forte in assoluto contro tutte le tipologie di discriminazione su base etnica, sessuale e di genere e per derivazione anche su quelle sociali.

Non è un caso, infatti, se in molte teocrazie, negli stati nostalgici del segregazionismo e nei regimi che  predicano la superiorità etnica, Darwin non venga insegnato o addirittura sia oggetto di mistificazione o la una teoria venga impropriamente derubricata a mera ipotesi al paio di altre (questo soprattutto negli stati del sud USA).

Non è un caso che i sostenitori dello schiavismo negli USA fossero per lo più creazionisti e sicuramente antievoluzionisti, solo così potevano trovare supporto culturale rispetto allo sfruttamento dei neri o alla cacciata dei nativi americani, allo stesso modo si sono giustificati i vari colonialismi ottocenteschi, gli orrori dell'antisemitismo, genocidi e financo lo sfruttamento sociale, i proletari d'altronde, se sono socialmente inferiori dovranno esserlo anche antropologicamente, o almeno così si è lungamente pensato. E taluno forse pensa ancora. Le stesse prevaricazioni sulle donne, di fatto, trovano giustificazione in quelle posizioni che vorrebbero gli essere umani creati diversi, con ruoli e importanze diverse e perciò diversi diritti.

Darwin smantella il costrutto logico che sta alla base di tutto ciò, razionalmente e metodicamente, con dati, osservazioni, deduzioni solide. Pur non possedendo cognizioni di genetica, che emergeranno solo dopo alla divulgazione della "Teoria delle Specie", a corroborarla e integrarla, Charles Darwin in questa sua operazione riesce piuttosto bene, a giudicare dalla veemenza astiosa con cui i detrattori della Teoria, provarono vanamente a reagire. E ci provano anche oggi.

Nell'opinione pubblica odierna, troppo spesso la Teoria dell'Evoluzione è interpretata come un'ipotesi, o comunque una postulazione non ancora consolida, opinabile, se il creazionismo non è più sostenibile - almeno dovrebbe essere - ecco che spunta "il disegno intelligente" ossia l'opera di una qualche demiurgo divino o alieno a orientare l'evoluzione della vita sulla Terra - ovviamente orientare per arrivare a noi, che saremmo prodotto di un intelligenza e non dei fattori esposti lucidamente da Darwin. In questo strisciante svilimento dell'Evoluzione si è spesso arrivati anche alla prospettiva di una sua uscita o ridimensionamento nei programmi scolastici o comunque a esporla con molti svarioni nei testi di scuola.

Ma questo fenomeno e, più in generale, lo svilimento della Teoria dell'Evoluzione Darwiniana e dei suoi successivi perfezionamenti, non va sottovalutato, anzi andrebbe visto con preoccupazione da parte di una società con una coscienza civile, democratica, perché una sua rimozione, porterebbe inevitabilmente a mettere in discussione quei principi universali sui diritti umani, che sono il fondamento stesso di quello che noi chiamiamo Occidente, per lo meno nella sua accezione migliore.


lunedì 9 ottobre 2023

#Vajont60

 #Vajont23. Non possiamo non interrogarci su questo evento, non possiamo non mantenerne vivo il ricordo e far sì che sia un monito perenne nel rapporto col territorio, nella gestione delle infrastrutture e delle emergenze e nella capacità di dialogare con le comunità locali. Se oggi esiste una diffusa ostilità alle Grandi Opere e diffidenza nelle istituzioni in questi temi, non lo si deve solo alle strumentalizzazioni di parte, ma anche al fatto che c'è stato il Vajont.

Da "La Stampa" del 9 ottobre 2023

Vajont, il reportage diventato storico: “Un paese che non esiste più”

Longarone spazzato via da una valanga d’acqua, al suo posto una distesa piatta coperta di fango. Tremila vittime, un disastro di proporzioni immani

Ripubblichiamo il reportage uscito su La Stampa l’11 ottobre 1963 e diventato storico: il giornalista Giampaolo Pansa, inviato speciale, fu tra i primi ad arrivare a Longarone dopo la tragedia del Vajont. Raccontò la valle distrutta dall’acqua e quel che restava di una comunità spazzata via in pochi istanti

Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza; sino a questa sera erano stati recuperati cinquecentotrenta cadaveri. I feriti ricoverati a Belluno, ad Auronzo ed a Pieve sono quasi duecento. Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Dal terremoto di Messina non si era più visto in Italia nulla di così orrendo.

Tutto è accaduto in meno di dieci minuti. Longarone è un piccolo comune della vallata del Piave, a venti chilometri da Belluno. Sino a ieri contava oltre quattromilacinquecento abitanti. Lo sovrastava una diga della Società Adriatica di Elettricità (Sade), finita di costruire nel 1960, alta 261 metri, a doppia armatura, la più alta nel suo genere in Italia e una delle più alte del mondo. Il bacino raccoglieva (e raccoglie, perché è rimasto intatto) le acque del torrente Vajont, un affluente di sinistra del fiume Piave.

«Una diga nata sfortunata - diceva oggi uno degli scampati alla sciagura -, perché si trova sotto un monte che si sfalda facilmente». Secondo voci raccolte a Belluno, pare che si fosse progettato di costruirla già attorno al 1925; poi i lavori erano stati sospesi perché sembra che i tecnici avessero il timore che i monti Toc e Duranno, che dominano il torrente, potessero crollare. Sempre secondo voci che circolano a Belluno, due anni fa, a Pasqua, si sarebbe registrato un lieve cedimento della roccia sopra la diga, senza conseguenze. All’inizio di questo settembre, poi, un sordo boato avrebbe fatto tremare i vetri delle case di Longarone. In quella occasione la gente disse che era la montagna che si muoveva. Negli ultimi giorni il livello dell’acqua nel bacino era stato abbassato di 21 metri rispetto a quello normale, come misura di precauzione. Si vedevano frane sulla montagna e alcune famiglie del comune di Erto e Casso erano state invitate a sgomberare per prudenza.

Quanto alcuni temevano è avvenuto ieri sera alle 22,35. Parte degli abitanti di Longarone già dormivano; altri s’erano raccolti nei bar, attorno ai televisori, per assistere alla partita di calcio fra il Glasgow e il Real Madrid; altri ancora ai trovavano al cinema a Belluno. Ad un tratto, quelli che erano svegli udirono un sordo boato e avvertirono come un soffio fortissimo di vento che spazzava la vallata. Una enorme falda della montagna era precipitata nel bacino del Vajont. Un’onda gigantesca si sollevò sopra la diga e tracimò, riversandosi sul corso del Piave con una violenza spaventosa. A giudicare dai segni lasciati sui versanti, doveva essere alta più di cento metri.

La diga era robusta e resistette. Dopo avere raso al suolo le frazioni di Rivolta e Villanova, l’enorme massa di acqua e roccia si schiacciò contro il concentrico di Longarone e la frazione di Pirago, portandosi via case, strade, ferrovia, argine, alberi. Un istante dopo l’ondata si lanciò a valle, investì la borgata di Faè e proseguì la sua corsa rovinosa verso Belluno e Ponte nelle Alpi. Mentre la valanga d’acqua scendeva dalla diga, a Belluno mancò la luce. Dopo dieci, quindici minuti in città e a Ponte nelle Alpi gli abitanti che si trovavano ancora per le strade si accorsero con terrore che il livello del Piave era salito all’improvviso, in modo pauroso, tanto da sfiorare le arcate dei ponti. Al chiarore incerto della luna i passanti scorsero che l’acqua ribollente trascinava tronchi di abeti, tralicci dell’alta tensione, rottami, travi, automobili, e corpi, molti corpi, straziati e privi di vita.

«Si capì subito che doveva essere accaduto qualcosa di terribile dalle parti di Longarone», racconta un giovane bellunese che accorse con i primi verso i paesi distrutti. «L’acqua copriva quasi per intero la strada; nel buio si sentivano grida, lamenti, invocazioni di aiuto. Avevamo delle pile tascabili, ma la loro luce era troppo fioca. Infatti ogni tanto qualcuno di noi inciampava in qualcosa di molle: era un ferito, più spesso un morto. Lo trasportavamo sul ciglio interno della statale e andavamo avanti alla cieca. Scorsi per primo il cadavere di una bambina, poi un paesano di Faè che era ancora vivo ed urlava, poi altri morti, ed altri morti ancora. Il paesaggio era stato cambiato in pochi istanti dalla violenza della ondata. Avevo percorso quella strada tante volte, ma non la riconoscevo più. Quando arrivammo in vista di Pirago e riuscimmo ad orientarci, la visione fu terribile: Pirago e Longarone erano scomparsi. Dove prima sorgevano i due paesi ora c’era soltanto una distesa piatta coperta di fango, di tronchi, di arbusti» (...). Stamane abbiamo percorso i cinque chilometri di valle sconvolti dall’acqua della diga. I segni del disastro s’incontravano ancor prima di Belluno: sul ponte nei pressi di Sussegana, dove centinaia di persone guardavano sgomente l’improvvisa piena del Piave, reso quasi nero dalla terra, dagli alberi, dai rottami; a Cadola, con la riva sconvolta, coperta di arbusti e legname fradicio, i campi coltivati invasi dal fango, una cascina sventrata; a Ponte nelle Alpi, dove fra le boscaglie si scorgevano i militari arrancare lungo la scarpata con tre, quattro, cinque barelle su cui stavano corpi straziati. Ma soltanto dopo Belluno, giungendo a Faè, ci siamo resi conto delle immani proporzioni della sciagura.

Faè, l’ultima frazione di Longarone investita dalla gigantesca ondata, è quasi tutta distrutta. Aveva ottanta abitanti: forse soltanto una decina di essi si sono salvati. Le colture sono sepolte sotto una coltre di melma; i pochi alberi ancora in piedi non hanno più foglie. Della chiesa sono rimasti soltanto i quattro gradini dell’ingresso. Dove sorgeva la villa di un industriale ora c’è una vasta pozza d’acqua fangosa. Di fianco c’è una montagnola di terriccio che ieri non esisteva. È come se il paese fosse stato appiattito da una gigantesca manata (...).

Siamo su un piccolo poggio. Di fronte a noi è come un vasto anfiteatro, brullo e piatto. Qui sorgeva Longarone. Uno degli abitanti ci mostra sgomento quello che ormai non c’è più: «Laggiù in quella conca, dove ora siedono gli alpini, stava la stazione ferroviaria. Al posto di quell’acquitrino c’era il parco Malcom, con i giochi per i bambini. Più in su sorgeva l’edificio delle scuole di avviamento, là dove c’è quel vuoto con grosse pietre». La stessa fine hanno fatto decine di case, diversi bar, l’ufficio postale, le sedi della Banca Cattolica del Veneto e della Cassa di Risparmio, la scuola elementare e la scuola media, il canapificio, la fabbrica di occhiali, la cartiera, la segheria e la fabbrica di marmi, il campo sportivo, la caserma dei carabinieri (...). La diga ha resistito all’urto della enorme frana di terriccio, ma qui a Longarone la poca gente che è rimasta vive con il cuore in gola (...). C’è chi piange in silenzio, e chi grida, come una giovane signora che si è gettata di corsa nel fango verso la casa scomparsa del fratello, urlando il suo nome fra le lacrime.

Di seguito un video realizzazione dell'Università di Padova, per far sì che la memoria non sia solo esercizio di retorica



venerdì 21 luglio 2023

Estate Radicale

I Compagni Radicali avranno molti difetti, ma di certo non difettano in passione, impegno e tempismo. Hanno lanciato in questi giorni la campagna "Falla fuori" finalizzata al rilancio dell'impegno diretto dei cittadini su alcuni dei grandi temi dei nostri tempi attraverso sei proposte di legge di iniziativa popolare. Per quanto spesso le proposte di legge di iniziativa popolare si perdano negli anfratti parlamentari, nonostante i grandi sforzi per la raccolta delle firme, continuare ad avviarne è, indubbiamente encomiabile, per ostinazione e passione, a prescindere da come uno si schieri. E sebbene il Geologo Proletario sia certamente meno liberista del compagno radicale, non si può non averne rispetto e ammirarne l'impegno. 

Questa campagna radicale si articola in 6 proposte di legge su vari temi. Ce ne sono due che non posso non destare attenzione della comunità delle Scienze della Terra e sulle quali sarebbe bene, e si invita caldamente a farlo, che sia gli Ordini Professionali dei Geologi - ed in generale delle professioni che hanno a che fare col territorio - sia gli studenti che le strutture dei vari dipartimenti universitari di Geoscienze, si dedicassero ad un sano confronto ad una presa di posizione precisa.

La prima riguarda il consumo di suolo, partendo dall'assenza di una legge naturale sul tema, quanto mai critico, ricordando la fragilità e l'indispensabilità di tale risorsa, la proposta di legge propone di istituire, su base regionale, precisi impegni in tema di cartografia, monitoraggio, tutela e ripristino, attraverso strutture dedicate e pianificazione responsabilizzando sia i cittadini che le istituzioni locali, la legge approccia in modo pragmatico il tema, proponendo una modifica del D.Lgs 152/06, se è pur vero che alcuni dei punti proposti sono forse ridondanti con normative nell'ambito della Protezione Civile e del Dissesto Idrogeologico, la legge pondera abbastanza bene i vari aspetti, sia pianificatori, che finanziari e gestionali.  Particolarmente di rilievo l'importanza che viene data alla cartografia di vario tipo sul tema e al suo costante aggiornamento. Piccolo neo, nell'articolo delle definizioni, quella sul suolo è un po' troppo antropocentrica, sarebbe stato meglio elencare sommariamente i processi chimici e biochimici che avvengono nel suolo e ricordarne la fondamentalità per il sostegno della biosfera nel suo complesso, non limitatamente alle sole attività umane.

La seconda riguarda la sburocratizzazione dei processi autorizzativi per gli impianti di produzione energetica, attraverso un radicale riordino delle competenze. Partendo da una riforma in tal senso dello specifico articolo del titolo quindi della Costituzione. In effetti troppo spesso i processi autorizzativi, non solo per questo tipo di impianti, ma in generale per tutta una serie di attività legate alla Transizione energetica e ai processi di adattamento al cambiamento climatico, sono letteralmente in balia della cavillosità della nostra burocrazia e della parcellizzazione e talora contraddizione delle competenze. In coerenza con i suoi intenti semplificatori, la norma è di un solo articolo.

Diamoci una letta. E magari una mossa.

giovedì 29 giugno 2023

Nemmeno l'Alluvione lava la testa ai somari.

C'è un antico proverbio che dice "a lavare la testa all'Asino, si perde tempo, acqua e sapone". Esiste anche una variante che aggiunge "e si infastidisce la bestia". Un modo per dire che per quante argomentazioni buone si abbiano, ogni discussione è inutile con gli ostinati nel pregiudizio, alla fine se ne ricava sangue amaro o liti. Mi è venuto in mente ascoltando taluni dibattiti o leggendo alcuni articoli all'indomani della terribile alluvione emiliana.

Non saprei come altro commentare altrimenti talune uscite. In primis è ampiamente criticabile la strumentalizzazione politica del post alluvione, che si traduce in farraginosità delle azioni di intervento post evento, basti pensare alla lunghissima gestazione per la nomina di una struttura commissariale, quanto mai necessaria, ma preda dei veti e controveti delle varie forze politiche, e l'organizzazione dei soccorsi e delle riparazioni. Il Governo in carica fatica a collaborare con le istituzioni locali di colore diverso dal suo. Vi è poi la stigmatizzazione del "modello emiliano" circa la gestione del territorio, come se altrove, da nord a sud, da un colore all'altro, si sia fatto di meglio, come se l'antropizzazione bulimica degli spazi non fosse bipartisan.

Altra insensatezza, figlia anch'essa dello scontro ideologico preconcetto, della logica di fazione e di una pervicace assenza di conoscenze di base, è la contrapposizione manichea tra chi ritiene il disastro figlio del cambiamento climatico e chi del consumo di suolo. Ciascuno argomentando a modo suo. 

Come se le due cose non fossero entrambe manifestazioni esteriori del medesimo modello di sviluppo divoratore e insostenibile. In ambo i casi le risposte sono ideologiche, non razionali e controproducenti.

Il problema è, infatti, che questo tipo di dibattito e le campagne ambientaliste per un Transizione Ecologica "hard", fatte a suon di misure draconiane, alla fine paiono favorire proprio il pensiero avverso al ripensamento del nostro modello socio economico.

E' evidente che politiche di transizione energetica, basate su inni alla catastrofe che impongono misure onerosissime, pesanti, in lassi di tempi ristretti e rifiutando determinati supporti tecnologici, senza adeguata contezza delle ricadute sociali che esse hanno, generano fortissimi malumori proprio nelle fasce più deboli.

Face deboli della società che spesso vivono sia in ambiti urbanizzati degradati, soffrono gli effetti del cambiamento climatico e si ritrovano a pagare il dazio di sopportare taluni effetti delle misure di transizioni ecologica, qui la propaganda delle destre clima-negazioniste  ed antiambientaliste attecchisce molto; questo porta la questione ambientale a diventare socialmente invisa e a tirare la voltata proprio ai movimenti no euro e "no Greta" per semplificare.

Si rischia che l'UE che uscirà dalle europee 2024 sia a maggioranza euro-tiepida e sostanzialmente molto poco green friendly, il che significherebbe un sostanziale arretramento sia nel campo dell'integrazione europea che nel processo di trasformazione verso un modello socio-economico più sostenibile. Un trionfo.

Lo sviluppo urbano ha portato all'impermeabilizzazione di ampi porzioni di suolo, alterato la rete idrografica, acuendo fenomeni di dissesto ed il rischio idraulico, non che favorito la creazione negli ambiti urbani di microclimi insalubri; il cambiamento climatico - reso più repentino dall'alterazione antropica della composizione atmosferica - comporta l'estremizzazione dei fenomeni metereologici ed un cambiamento profondo nei regimi pluviali. Il mix di questi fattori in una situazione di oggettiva lentezza ed incertezza nella messa in atto di misure per l'adattamento climatico e la riduzione dell'impatto antropico, porta a effetti catastrofici.

Bisogna riguadagnare le masse alla causa ambientale, ma non si può farlo con la retorica, l'ideologia, l'estremizzazione delle misure. Serve dialogo, informazione, attenzione alle dinamiche territoriali, grande pragmatismo, capacità tecnologica, coinvolgimento del mondo produttivo, fortissima attenzione ai ceti deboli. Rigore scientifico. 

Se si pensa di fare la svolta ambientale con la propaganda, sarà solo la Reazione a trarne vantaggio. E tutti noi a perdere.


lunedì 5 giugno 2023

Schizofrenia Geologica


Non saprei, onestamente, e prego di non volermene, davvero, come altro definire il Consiglio Nazionale dei Geologi, viste le sue ultime dichiarazioni se non Schizofrenico. Certo l'organo è borghese e reazionario, ma formalmente è pur sempre la voce dei Geologi in Italia, per cui, sebbene per me sia come ascoltare la voce del Vaticano,  quando, per bocca del Presidente fa certe affermazioni, non posso non sentirmene coinvolto. 

Come può essere che a distanza di pochi giorni si riesca a fare importanti affermazioni circa il dissesto del territorio e ai rischi indotti dall'artificializzazione spinta in talune aree, quali cause predisponenti a eventi calamitosi, che mixate con gli effetti del progressivo mutare dei trend delle precipitazioni, porta a esiti disastrosi come quelli recenti in Emilia Romagna, richiamando la necessità di un radicale cambio di rapporto con il territorio, anche attraverso la sua deartificializzazione laddove possibile e di poco appresso si vada, cinguettando con uno dei ministri alle infrastrutture, meno idonei al ruolo della storia repubblicana, discettando sulla volontà di voler dare ampia disponibilità nel processo che porterà alla realizzazione di un'opera estremamente impattante come il Ponte sullo Stretto di Messina? Il problema del Ponte non è tanto la questione sismica, non ho dubbi che ingegneristicamente la cosa sia fattibile, quanto l'artificializzazione di territorio che sarà necessaria per l'opera. I piloni si mangeranno ettari di aree oggi sgombre e la viabilità connessa segnerà un'ulteriore pesante impermeabilizzazione. in due regioni che si trovano ad avere fenomeni di dissesto pesanti, gestione idrica e ambientale in seria difficoltà, siti inquinanti ben lontani dalla bonifica ed interessate da processi incipienti di desertificazione. Per non parlare di una serie ormai cronica di criticità socio economiche. 

Orbene, davvero crediamo che i fondi che il ponte assorbirà non potrebbero trovare più proficuo ed efficace impiego? Davvero ci serve il Ponte per reclamare un ulteriore successo di un modello di sviluppo che fa delle infrastrutture spesso delle armi di distrazione di massa, anziché elementi di sviluppo sostenibile?  Queste sarebbero Sentinelle del Territorio? Mi sembrano più i secondini.

I Geologi vogliono davvero essere parte di ciò? Crediamo che dia autorevolezza stare "nella stanza dei bottoni" da commensali? Oppure crediamo al cambio di paradigma nel rapporto col territorio? Da quale parte stiamo? 

Forse è meglio se andiamo a farci vedere da uno bravo.