domenica 21 settembre 2025

Green Wars pt.2: Groenlandia dreaming

Le aree polari sono al centro della questione climatica. Il riscaldamento globale ne sta provocando la rapida trasformazione, mettendone repentinamente in crisi gli ecosistemi. Lo scioglimento dei ghiacci sta determinando un progressivo innalzamento globale del livello dei mari con conseguenze pesantissime per tutte le aree costiere mondiali. Lo scongelamento del permafrost – il suolo ghiacciato delle aree polari e circum polari – comporterà una massiccia liberazione di gas – metano in particolare – che potenzieranno l’effetto serra, accelerando ulteriormente il riscaldamento climatico. Le terre, oggi celate dai ghiacci, contengono risorse e potenzialità che fanno gola a molti potentati economici e Stati1. Alla fine anche il cambiamento climatico fa business.

Paradossalmente potrebbero diventare disponibili risorse che servono alle tecnologie green che dovrebbero essere funzionali alla transizione energetica verso uno sviluppo meno climalterante. Sembra una gigantesca opera di Escher in chiave ambientale.

La più grande isola del mondo, la Groenlandia di Erik il rosso è al centro della corsa all’Artico2. Anche questa è una terra geologicamente molto antica, oggi molto stabile, ma frutto di collisioni titaniche, intense attività vulcaniche, fratture e saldature, ci sono rocce più vecchie di 3 miliardi di anni3. Sostanzialmente la Groenlandia è costituita da tra placche che si sono saldate oltre 2 miliardi di anni fa e che si sono trovate coinvolte nei processi di scontro e separazione con lo scudo canadese da una parte e la Laurasia dall’altro, in parte è stata coinvolta nelle vicende che hanno portato alla formazione dello scudo ucraino, ci sono stati diversi processi di orogenesi e di distensione, l’ultimo si è concluso dell’Oligocene, circa 45 milioni di anni fa. Il connubio di fenomeni vulcanici e metamorfici determina le peculiarità litologiche, che rendono oggi la Groenlandia così desiderabile. Vi sono, infatti, riserve accertate di Uranio, Torio, ma soprattutto terre rare e petrolio4,5.

L’amministrazione Trump che sta cercando di affrancare gli USA da ogni possibile dipendenza cinese sui minerali strategici vuole sfruttare la situazione6. La Groenlandia è un boccone prelibato sia per le sue risorse che per il controllo delle rotte artiche, averla rafforzerebbe gli Stati Uniti del gruppo dei paesi che si spartiscono il controllo del polo. Qui, però, diversamente dal caso ucraino dove il governo statunitense usa, a mo’ di ricatto, il sostegno contro l’invasione russa, per costringere Kiev a cedere le proprie risorse, per cercare di portarsi a casa l’isola gli americani stanno facendo pressioni sulla comunità locale, ingerendo nella politica interna e facendo sfoggio muscolare paventando interventi militari al fine di mettere in sicurezza la Groenlandia da possibili mire moscovite e pechinesi. Oggi la terra di Erik il Rosso, pur godendo di ampia autonomia e in procinto di raggiungere piena indipendenza è sotto amministrazione danese, in particolare per la politica estera. Copenaghen ovviamente risulta particolarmente irritata dall’atteggiamento statunitense e lo è anche l’UE che ha avviato da qualche tempo diverse iniziative di cooperazione con l’isola su questioni che vanno dalle politiche energetiche ad appunto quelle minerarie.  Per il momento i groenlandesi non sembrano apprezzare, anzi, gli approcci di Washington, ma visti i tempi non si possono escludere iniziative che sembravano impensabili fino a ieri.

Per altro le risorse così ambite, potrebbero in realtà non essere così magnifiche.  La steenstrupina, il minerale che contiene le terre rare, presente in Groenlandia, è piuttosto complesso, con composizione variabile, il che rende arduo standardizzare un processo efficiente di raffinazione, che per altro risulta ambientalmente molto impattante e costoso, tanto da non aver finora prodotto particolari iniziative minerarie in materia.  Questo, però, dipende dal fatto che finora il controllo dell’autorità locale sulla questione è stato diretto e forte e ovviamente i groenlandesi hanno nella tutela del loro territorio una fortissima preoccupazione.  Se l’isola diventasse satellite, protettorato o parte integrante degli USA potrebbero diventare altri i parametri di giudizio, con forte rischio che non sarebbero del tutto ponderati e razionali, opzione non improbabile visto come ragiona l’establishment trumpiano.

L’UE deve necessariamente rafforzare la cooperazione con Copenaghen e la Groenlandia, favorirne il processo di autodeterminazione, contrastare le ingerenze USA e tentare di creare un fronte comune col Canada che abbia nella cooperazione diplomatico-economica anche delle risorse strategiche una forte intesa e che porti ad un’alleanza in grado di presidiare quello che è uno dei “punti caldi” del pianeta nella sfida alla sostenibilità ambientale, l’Artico, trincea dove sono destinarsi a fronteggiarsi modelli di sviluppo contrastanti, ma anche, a quanto pare la democrazia con l’autocrazia.


1) Artico: geopolitica di una partita a due

3) La storia geologia della Groenlandia e la sua importanza economica e strategica

4) Groenlandia: minerali e petrolio

5) La Groenlandia e le riserve di terre rare

lunedì 1 settembre 2025

Green Wars pt.1: l'Ucraina è servita

immagine tratta da: il Domani

Da sempre l’Umanità ha combattuto guerre per garantirsi il controllo delle risorse, fossero terre fertili, rotte commerciali, accesso all’acqua, oro o, più di recente idrocarburi e metalli preziosi. La conformazione geologica di un luogo poteva (e può) farne la prosperità dei suoi abitanti (e governanti), ma anche l’oggetto della cupidigia dei vicini. Valeva ieri, e vale anche oggi ai tempi della transizione energetica.

Chi sperava che il mondo della green economy fosse pacifico, deve fare i conti con l’amara realtà. Molte delle guerre che oggi piagano il mondo, al netto di disegni imperialisti, strategie di sopravvivenza di regimi in discredito e qualche turba religiosa, hanno ancora il loro verso motivo nel controllo delle risorse. Lo è anche il caso ucraino.

Se è vero che il conflitto nasce dalla volontà di Putin di riaffermare il ruolo di potenza della Russia e la sua primazia sui territori della defunta URSS, allontanando gli avvicinamenti a UE e NATO per circondarsi di stati vassalli, è anche vero che la bramosia per i territori contesi e il desiderio di rendere l’Ucraina un proprio satellite non son affatto slegati dalle ricchezze naturali che si celano nel suo sottosuolo1. Non sono infatti ne la presunta solidarietà alle popolazioni russofone, o la riaffermazione di una identità panslava che hanno messo in modo le divisioni corazzate ex sovietiche e nemmeno lo spettro della NATO ai confini della madre Russia, ma più prosaicamente quello che l’Ucraina ha da offrire. L’asservimento del paese non è riuscito con i soliti mezzi, ossia campagne di disinformazione a mezzo social – che invece tanto funzionano a casa nostra – per veicolare consenso alle quinte colonne che si annidano del paese, e perciò Mosca ha dovuta usare metodi più spicci, ma purtroppo, mai del tutto demodé.

La conformazione geologica da tempi molto lontani. Lo “scudo ucraino” fa parte del così detto Cratone Centrale dell’Europa dell’Est – EEC2. Tale porzione di crosta terrestre è formata da tre placche più antiche saldatesi tra loro: SARMATIA (che comprende il territorio ucraino), VOLGO-URALI (parte del Caucaso e Russia fino agli Urali) e BALTIA (parte della Fenno-Scandinavia). Queste placche sono derivate dalla disgregazione della Rodinia supercontinente prima di Pangea, formatosi circa 900milioni di anni fa e disgregatosi in vario modo nei seguenti 250 milioni di anni. In pieno Precambriano, quando la Terra è tumultuosa e inospitale. Le placche saldatesi in Rodinia si originano ben 2,5 miliardi di anni fa, quando la Terra era un ribollire di roccia fusa, collisioni e gas mefitici. Le rocce sono per lo più granitiche e basaltiche, figlie di eruzioni terrestri e marine, dovute alle risalite di materiale caldo dal mantello e successivamente trasformate (metamorfosate) nel susseguirsi di eventi vulcanici e collisioni titaniche che hanno formato montagne cancellate dal tempo3. Questa complessa e antica vicenda geologica determina la presenza di certi minerali nel sottosuolo ucraino e l’assenza di strutture tettoniche attive, il che rende l’area molto stabile. Geologicamente parlando, meno geopoliticamente a quanto pare. Qui troviamo una grande abbondanza di metalli strategici per le tecnologie green, ma anche per quella militare e per altri settori. L’Ucraina è tra i primi 10 paesi del mondo per produzione di Titanio, sesto per il Ferro, settimo per Manganese, vanta rilevanti giacimenti di Grafite, Gallio, Gas Neon, Uranio e Zirconio4, quest’ultimo particolarmente fondamentale per le tecnologie nucleari. Ci sono poi buone risorse di Gas Naturale.

L’UE aveva già individuato nell’Ucraina un partner fondamentale nelle sue politiche per affrancarsi dalla dipendenza cinese per molti dei minerali strategici5. La Cina, infatti, ha costruito una vera primazia globale sia nel controllo delle risorse minerarie principali su molti metalli chiave per le nuove tecnologie e sulle terre rare, non che sulle fasi di raffinazione, e questo le da un forte vantaggio sull’occidente6. Pechino e Mosca guardano con interesse a Kiev per la stessa ragione, per consolidare il loro controllo su queste filiere e non è una caso se nei territori ucraini occupati dai Russi via siano siti o infrastrutture minerarie già avviate.

Anche gli USA necessitano di garantirsi un approvvigionamento sicuro sui minerali che citati prima, proprio per evitare spiacevoli dipendenze dalla Cina, che per Washington è ormai un competitor globale. La becera amministrazione Trump non ha esitato a ricattare Kiev in cambio del supporto contro Mosca  chiedendo come merce di scambio proprio una “partnership strategica” sulla gestione delle risorse minerarie ucraine7.

Forse queste cose si facevano anche in passato, anzi sicuramente, ma almeno c’era un po’ di pudore rispetto all’opinione pubblica. Fatto sta che di questa corsa al controllo delle risorse, una volta era il petrolio, oggi metalli e terre rare, ne pagano il prezzo le migliaia di soldati mandati al fronte come carne da cannone, gli sfollati e gli uccisi dagli attacchi su obbiettivi civili – operati dai russi senza particolari remore. Tutto questo avviene col civile occidente e la cara Europa ora complici, ora imbelli, ora ignavi, ora incapaci. Viene dura poter credere davvero che simili soggetti possano garantire pace e sicurezza all’Ucraina8.

Sembra che non vi sia nessuno interessato davvero a far terminare l’orrore di questo conflitto, ma solo tropi in attesa di lucrarne sugli effetti.

6) L'oro di Pechino che tutti vogliono

7) Terre di Conquista

8) Quali ‘garanzie’ per l’Ucraina? 


martedì 29 luglio 2025

Piero è vivo e lotta con noi. La Meraviglia del Tutto

I libri, spesso, sanno arrivare al momento giusto nelle nostre vite. E' da un po' di tempo, forse complice l'avanzare degli anni e l'inevitabile accettazione, seppur controvoglia, della consapevolezza di avere ormai alle spalle gli anni della vera giovinezza e di non poter più godere delle tolleranze che si lasciano alla gioventù, che mi trovo a riflettere su questioni come la morte, il senso dell'esistenza, il trascendente, la mia "eredità" spiritual intellettuale, il ricordo, il futuro, le prospettive dei miei figli. 

Il mio progressivo, sempre più fatalista, realismo mi porta verso una prospettiva infelice. Temo che non esista un altrove dove incontrare di nuovo i miei cari, temo di non aver speso adeguatamente il mio tempo. Mi girano per la testa anche tempi meno personali, per esempio, sappiamo che tra qualche miliardo di anni il nostro pianeta sarà spazzato via dall'esplosione che porterà il nostro amato Sole a diventare una Supernova, la nostra specie per allora si sarà estinta o sarà evoluta in qualche altra forma, in ogni caso, che fine faranno tutte le conoscenze che abbiamo e avremo acquisito, tutte le nostre storie? Torneranno tutte nel buio cosmico? Probabilmente il mio essere Geologo  mi complica la vita in queste faccende, perché tendiamo a guardare al passato più profondo ed interrogarci sul futuro più remoto.

Ed ecco che ti spunta il libro proprio giusto per una fase di riflessione simile e non poteva che essere dell'uomo che ti ha ispirato e fatto amare la Scienza sin da piccolo e che ti ha portato a studiare Geologia: Piero Angela. Nel suo ultimo libro postumo, una raccolta dei suoi pensieri in una lunga conversazione con uno dei suoi allievi, Massimo Polidoro, con cui ha dato anche vita al CICAP, il Comitato per il Controllo delle Affermazioni delle Pseudo scienze. Attività quanto mai meritoria in questo tempo di fregnacce dilaganti.

"La Meraviglia del Tutto" è un viaggio nelle riflessioni del grande Piero, maturate nel corso di una vita spesa a imparare, esplorare, raccontare, si parla molto di Scienza, ovviamente, ma anche di democrazia, politica, impegno, religione, spazio, vita e famiglia, futuro e giovani. Non nasconde un certo timore proprio per il futuro e i giovani nel suo ragionare. Infatti anche Angela non può che rilevare la grande irrazionalità che imperversa nel nostro tempo, l'ignoranza e la paura che questo genera, le disuguaglianze e i conflitti che ne derivano. Il grande timore è che si limiti la libertà della Scienza, ma soprattutto che se ne abbandoni il metodo (ci ricorda qualcosa di attuale?), riducendo le speranze di miglioramento per i giovani. Giovani che sono il vero tarlo per Piero, a cui si rivolge praticamente per tutto il libro, invitandoli ad appassionarsi alla Scienza, vera chiave per capire il nostro essere e costruire prospettive migliori. Per questo nel libro si ragiona molto di istruzione e scuola. La scuola non deve riempire di nozioni, ma insegnare a collegare le nozioni, per sviluppare il pensiero logico, il ragionamento argomentato e il dialogo costruttivo, veri antidoti al pregiudizio, alla prevaricazione , all'irrazionale. E' necessario che l'insegnate sappia stimolare l'attenzione dello studente, così come lo deve fare il bravo divulgatore: "ludendo docere", un motto che viene richiamato spesso da Piero Angela, divertire, anche mentre si spiegano questioni complesse, non vuol dire sminuire i contenuti o se stessi, perché uno dei motivi per cui la Scienza è diventata estranea alla società si deve anche ad un approccio alla comunicazione troppo chiuso e complesso, derivato da una concezione un po' elitaria del ruolo dell'Accademia. Si deve anche a questo la diffidenza verso la Scienza e il pensiero il pensiero razionale, fatto che in un paese come l'Italia, che Piero definisce un paese emotivo in cerca sempre di soluzioni semplici a problemi complessi, genera la diffusione di false convinzioni, spianando la strada ad imbonitori e demagoghi, che spesso ci portano fuori rotta, con esiti fallimentari per il paese. 

Angela si rende conto che oggi la tecnologia corre più della nostra comprensione della stessa, per questo la usiamo senza cognizione di causa. Per questo ci serve una "filosofia della tecnologia", che ci aiuti a rapportarci intelligentemente con le potenzialità che la tecnica ci offre. E ci serve anche uno studio sulle neuroscienze, che ci aiuti a capire come funziona il nostro cervello, che può essere la chiave del nostro successo, ma anche del nostro fallimento.

La legge di gravità non si può abolirla (ecco il senso dell'affermazione che la Scienza non è democratica), ma se l'uomo la capisce, può imparare a volare. E se uno prende le supposte per bocca, non può lamentarsi se non fanno effetto, sono immagini piuttosto chiare con cui Piero esplica il concetto.

A mio avviso è un libro a "10 cose che ho imparato", libro precedente a questo di Angela, andrebbe fatto leggere alle superiori e andrebbero letti da molti adulti. Infatti, nel testo si spiega l'importanza di continuare sempre a studiare, di coltivare la propria curiosità ad ogni età, è una cosa che nel mio piccolo cerco di fare.

Il libro si chiude con un concetto inaspettato, che non svelo, ma che dimostra come la razionalità non è cinismo o freddezza anzi. Il meglio della natura umana si manifesta quanto libera la sua innata curiosità e impara a collaborare se stessa.

domenica 1 giugno 2025

Se il continente nero fa la rivoluzione verde

Il continente africano è una delle aree più esposte agli effetti del riscaldamento globale. L'estremizzazione climatica, già oggi, sta aggravando i fenomeni siccitosi così come la tropicalizzazione del clima espone a eventi alluvionali eccezionali vaste aree. Ciò comporta la perdita di vite, bestiame, raccolti, terre fertili, riserve idriche, appesantendo le difficoltà di molte regioni, con connessi episodi di carestie ed epidemie, instabilità politiche e migrazioni di massa. A questo si aggiunge la crescita demografica dell'Africa e la crescente domanda di maggior disponibilità energetica, gli ingredienti per un grave crisi socio economica ed ambientale, che solo un illuso o uno stupido possono immaginare restino confinate nel continente.

L'Africa è stata per secoli oggetto di depauperamento delle sue risorse a vantaggio di altri, noi del Vecchio Continente per primi. Eppure, proprio l'Africa ha tutte le potenzialità per sfidare le cause del cambiamento climatico ed addirittura supportare molti dei suoi più o meno ex sfruttatori in questa azione, non più come soggetto subalterno, ma vero e proprio partner, con potenziali importanti ritorni economici.

Il ragionamento è ovviamente più complesso, ma vorrei discutere degli esiti di alcuni studi (1) in corso che evidenziano il potenziale africano nel processo globale di transizione energetica verso modelli di sviluppo a basse o nulle emissioni carboniche

Attualmente circa il 50% della popolazione africana (circa 1,34 mld di persone), non ha accesso all'energia elettrica e a tutto ciò che ne consegue - questo avviene in modo disomogeneo tra le varie aree, l'area subsahariana è la più svantaggiata - la popolazione cresce  del 2,5% anno, nel 2050 l'Africa dovrebbe essere il continente più popoloso, questo cambierà radicalmente i suoi fabbisogni energetici, che oggi incidono per appena il 3% della produzione mondiale di energia.

Le principali fonti energetiche dell'Africa sono ovviamente gli idrocarburi (gas e petrolio in maggioranza), per circa il 65% della produzione, cui seguono i biocarburanti e i rifiuti, il nucleare e l'idroelettrico coprono pochi punti percentuali di fabbisogno. Il potenziale delle energie rinnovabili oggi è molto poco sfruttato, per varie ragioni.

Come sappiamo uno degli elementi su cui si punta molto per ridurre il consumo di fonti fossili è l'idrogeno (H), che si è rivelato un efficiente vettore energetico. L'H si produce per elettrolisi delle molecole d'acqua separando l'idrogeno dall'ossigeno. Il processo richiede energia e, a seconda di quale è l'origine di tale energia, l'idrogeno prodotto è classificato cromaticamente per definire rapidamente la sostenibilità del processo di produzione. Il più desiderato è ovviamente quello "verde", ossia quello in cui l'energia per l'idrolisi deriva da fonti NON fossili. Non semplice però avere queste condizioni, tant'è che a livello mondiale, l'H green, verde, rappresenta solo il 17% della produzione annua complessiva.

L'utilizzo di eolico e solare per la produzione di idrogeno non è sempre una via facilmente percorribile:

  • non tutte le regioni del continente hanno condizioni adeguate di irraggiamento solare o costanza dei venti.
  • servono reti di distribuzione e impianti di accumulo, infrastrutture oggi molto carenti in Africa, servono grandi investimenti la loro realizzazione. Anche gli impianti di elettrolisi richiedono importanti dotazioni infrastrutturali e soprattutto tecnologiche. Per la realizzazione i paesi africani dovrebbero ricorrere a investitori esteri, col rischio di aumentare la propria dipendenza dall'estero.
  • gli impianti eolici e fotovoltaici richiedono ampie superfici, che potrebbero comportare la sottrazione di aree agricole, generando problemi alla sussistenza alimentare delle popolazioni locali.
  • la produzione di idrogeno per idrolisi richiede l'uso di risorse idriche, che verrebbero sottratte alle disponibilità del territorio, acuendo i problemi di approvvigionamento di acqua da bere e per irrigazione in un contesto già critico.
Dobbiamo concludere che l'idrogeno non fa per l'Africa, almeno nel medio termine e non senza l'intervento di capitali esterni? Tutt'altro. Si può arrivare a produrlo sfruttando processi di degradazione anaerobica (ossia fermentazione con batteri che non richiedono ossigeno) di rifiuti e biomasse, elementi entrambi abbondanti in Africa e destinati a crescere insieme alla crescita della popolazione, inoltre le tecnologie necessarie sono già collaudate, disponibili anche nel continente, senza richiedere l'occupazione di terreni impiegati per allevamento e produzione agricola o aumentare la pressione sul consumo di acqua. Non è secondario poi che l'implementazione di tali strutture in concomitanza con la crescita demografica genererebbe la creazione di occasioni occupazionali necessarie per un'area in cui la maggior parte delle popolazione è in età da lavoro.

L'idrogeno ha inoltre un'altra peculiarità, si può trasportare adattando le reti di trasporto idrocarburi, infrastrutture che l'Africa ha e che la collegano egregiamente al vecchio continente, diverrebbe perciò possibile anche un export del surplus di produzione verso l'Europa, contribuendo agli obbiettivi europei di riduzione delle proprie emissioni carboniche, ed ottenendo una remunerazione per i paesi Africani. Varie agenzie europee stanno avviando collaborazioni e investimenti in questo senso con vari Stati dell'Africa. Come sempre, però, l'Europa procede un po' a macchia di leopardo, un po' in ordine sparso tra i suoi vari governi, servirebbe un'azione coordinata e decisa. L'UE potrebbe, e secondo me dovrebbe, diventare il miglior PARTNER dell'Africa. Il vantaggio sarebbe reciproco e aprirebbe la strada, finalmente ad una stazione di collaborazione tra il vecchio continente e il continente nero all'insegna della collaborazione, condivisione e sostenibilità.

(1) The Potential Role of Africa in Green Hydrogen Production: A Short-Term Roadmap to Protect the World’s Future from Climate Crisis


lunedì 30 dicembre 2024

Fossili e Far West

La storia della Paleontologia moderna, o meglio della sua trasformazione in disciplina scientifica compiuta, ha molti protagonisti e scenari. Le campagne, le brughiere e le spiagge inglesi sicuramente con compunti, timorati di Dio, fini osservatori e osservatrici dell'epoca georgiana e vittoriana, l'accademia di Francia con i suoi fieri e talvolta pomposi animatori. Le cave tedesche con ligi scalpellini e austeri professori. Ma molto lo dobbiamo agli sterminati paesaggi della gioventù degli Stati Uniti e di un colorito circo di nativi, generali, avventurieri, ciarlatani, banditi, appassionati studenti e studiosi, eccentrici ricconi, spesso condensati nel medesimo personaggio.
Nel libro "Polvere e Ossa" di Gabriele Ferrari, ci viene raccontata la storia dell'epico scontro avvenuto nella seconda metà dell'800 negli USA post guerra civile tra Edward Drinker Cope e Charles Onthiel Marsh, che portò alla scoperta di decine di nuove specie fossili, alla nascita di diverse oggi autorevolissime istituzioni scientifiche, ma anche a errori clamorosi, scontri a fuoco, colpi bassi e avventure tali che non starebbero male nella sceneggiatura di una di quelle miniserie simil storiche che oggi vanno tanto per la maggiore.
L'autore ci accompagna dagli albori delle carriere dei due paleontologi, attraverso le loro vicissitudini anche personali, sino all'apice delle loro vicende e della loro ostilità. Inizialmente non sembravano destinati a diventare acerrimi nemici, ma entrambi avevano il medesimo obbiettivo, diventare il punto di riferimento della Paleontologia Statunitense del loro tempo. Entrambi ambiziosi e ricchi, divergevano caratterialmente non poco: uno metodico, paziente, cinico, ma capace di slanci inaspettati verso le vicende dei nativi americani - Marsh - l'altro irruento, frenetico, istintivo, romantico e sentimentale verso la famiglia -  Cope - daranno vita ad un'epica battaglia nei territori del Far west americano che porterà alla scoperta di alcune delle più iconiche specie di rettili mesozoici e mammiferi neozoici. Uno scontro di cui faranno le spese in molti in particolare il povero Leidy, che prima dell'avvento di questi due ragazzi terribili era la massima autorità della Paleontologia a stelle e strisce e gestiva il ruolo con pacifica pacatezza. Ma a quei tempi la caccia ai fossili non era più affare da persone cortesi. 
Sullo sfondo e a volte anche in primo piano alla "guerra delle ossa" troviamo Toro Seduto, Nuvola Rossa, i Siux, il generale Custer, il Presidente Grant, Buffalo Bill, Barnum, il nascente capitalismo americano, quaccheri e protestanti vari. Un libro da godersi per gli amanti della Paleontologia, delle storie del vecchio West e delle botte da orbi.

lunedì 18 novembre 2024

I bei vecchi tempi Geologici

    Un’espressione che, almeno fino a non troppo tempo fa, si usava per significare che una data cosa era piuttosto vetusta, era attribuirla a “ere geologiche fa” e i “tempi geologici” erano quelli dei processi che si voleva definire lentissimi, per esempio quelli burocratici. Non erano locuzioni premianti, semmai il contrario. Ma come Geologi non ce la siamo mai presa, perché la vastità del tempo geologico è sempre stato uno dei concetti tra i più affascinanti della materia. Declinato rispetto ai tempi ben più brevi dell’orizzonte umano assume un significato indubbiamente diverso.

    Il mondo di H. Sapiens, però, negli ultimi decenni si sta facendo ancor più frenetico e anche la Geologia, volente o nolente sembra dovervisi adeguare, perdendo di flemma (talvolta ahimé di autorevolezza), entrando con tutto il suo peso nei tempi della Storia, financo a quelli della Cronaca.

    Le sempre più frequenti sciagure climatiche richiedono nodelli previsionali traguardati al decennio o giù di lì ed ai Geologi si chiedono spesso spiegazioni pressoché immediate degli accadimenti, questo porta ad un aumento sempre più marcato della risoluzione delle analisi sul record geologico per reperire elementi utili ai modelli previsionali sugli scenari futuri e corrispondenze con i fenomeni attuali (e se il supporto dei dati tratti dallo studio del libro della Terra non è adeguato, gli sfondoni clamorosi sono dietro l’angolo).

    Oggi come non mai la fortuna di uno Stato o di un Governo può dipendere dalla disponibilità di risorse (che siano per la green o per la grey economy cambia poco), dalla capacità di gestirle e di controllarne di ulteriori o dalla vulnerabilità ad essere soggetto a eventi calamitosi/catastrofici di varia tipologia e dalla resilienza agli stessi.

    Le politiche ambientali sono, però, per definizione politiche di medio lungo termine – ovviamente sempre a scala Sapiens – richiedendo scelte di tipo strutturale che dovrebbero nascere da un robusto supporto di conoscenze tecnico scientifiche, verificabili, e dovrebbero essere accompagnate da modelli previsionali e di monitoraggio in itinere, al fine di adeguare i processi mano a mano che i modelli si affinano.

    Questo non si sposa, però, dobbiamo dirlo, benissimo con la Democrazia, avendo questa nell’alternanza dei governi una sua peculiarità fondamentale e, direi, imprescindibile.  Diviene pertanto essenziale che su tutta una serie di questioni, in particolare, per quanto riguarda l’oggetto di questo sproloquio, le questioni ambientali ed in generale quelle a carattere tecnico-scientifico vi siano delle condivisioni di base e soprattutto approcci non discontinui e ideologici.

    La Democrazia odierna ci mostra, invece, che così non è, ed anzi è un problema. Posizioni dogmatiche, demagogiche, financo francamenteirrazionali tendono ad avere ampio consenso, generando anche rappresentanzapolitica e di governo. Il caso, ovviamente, più rappresentativo al momento è quello di Trump e del suo governo, ove vi sono le posizioni antiscientifiche più perniciose non mancano e ove vi è quella geniale contraddizione vivente di Munsk, straordinario innovatore da un lato, terribile dogmatico su altri. Sicuramente la nuova presidenza Trump non potrà non avere ripercussioni pesantisulla questione climatica, ma anche sulle questioni agrotecniche, energetiche e mediche in un mix di avventurismo e negazionismo.

    Se aggiungiamo che comunque su posizioni simili, magari in modo meno parossistico e più sottotono vi sono i governi di molti paesi democratici, più o meno, e francamente NON democratici non c’è da essere sereni rispetto alle grandi questioni ambientali del nostro tempo.

    Bisogna, però, riflettere profondamente sul perché dalla società nel suo complesso questi temi non sono adeguatamente percepiti e condivisi, anzi, sono spesso invisi e oggetto di strumentalizzazione di parte. Sicuramente, e non è complottismo, vi è la mano di grandi portatori di interessi economici che produce questo effetto attraverso – purtroppo efficaci – campagne mirate di propaganda più o meno complesse e talvolta di vera e propria disinformazione, ma non solo. C’è oggettivamente una sorta di egoismo sociale di fondo che fa sì che siamo profondamente restii, se non ostili, a mettere in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo, perché significherebbe rinunce più o meno immediate per benefici relativamente lontani nel nostro orizzonte temporale (ma non in quello della prossima generazione per esempio) e questo, tornando alle considerazioni sulla democrazia, non genera consenso elettorale, tutt’altro. C’è anche da dire, invero, che una qualche – anzi più di qualche – “mea culpa” lo dovrebbero fare diversi soggetti del mondo ambientalista, in fondo se alla causa ambientale, spesso si è rivolta più ostilità che supporto, qualche riflessione sul proprio operato sarebbe più che opportuna.

    Infatti, un approccio altrettanto dogmatico e fondamentalista, anche nei modi a volte, ha portato a decisioni altrettanto irrazionali e non adeguatamente ponderate con effetti negativi sull’ambiente, o comunque non positivi, e controproducenti sul piano economico, con ricadute spesso sulle fasce deboli della società. Questo è particolarmente evidente in UE, dove non avremo magari le parossistiche espressioni trumpiane, ma su temi quali l’energia (la questione del nucleare, piuttosto che l’approccio sul gas…) o l’agrotecnica (la questione OGM su tutte), l’auto elettrica l'assunzione di posizioni poco pragmatiche ha portato alla sofferenza di importanti fette di economia e con esse di società, senza che vi fosse sufficiente sensibilità e prontezza verso il disagio e la marginalizzazione di queste, redendole estremamente vulnerabili alle sirene demagogiche populiste e più o meno antiscientifiche. Stendiamo un velo pietoso sulla questione nel nostro paese.

    Il così detto “ecosocialismo” così come coniugato fino ad oggi in UE è stato un mezzo fiasco, visto che si è perso le masse per strada. I movimenti che vogliono, giustamente, un progresso sostenibile hanno un grande lavoro da fare adesso, che è quello di ricreare un ampio consenso trasversale su tali questioni, supportando la comunicazione e l’informazione scientifica attraverso una divulgazione onesta, trasparente, accessibile e partecipata, denunciando le scelte e posizioni non basate su criteri razionali, non assecondando le emotività del momento e nemmeno tentando di cavalcarle e senza nessun ammiccamento a posizioni preconcette o ideologiche. L'Europa deve continuare ad essere coraggiosamente alfiere della battaglia dello sviluppo sostenibile, ma deve essere più concreta nel farlo.

    Dare oggi dell’orco a Trump e dei buzzurri ai suoi elettori, e fare altrettanto coi populisti nostrani, non solo non serve, ma è, anzi deleterio. Si deve opporre il ragionamento, si deve smontare l’emotività, si deve rivolgersi alla testa delle masse e si deve riportarle alla partecipazione alla vita pubblica. L’affermarsi di posizioni come quelle del Tycoon d’oltreoceano, di Orban qui in UE o di altri sovranisti vari, si deve anche alla disaffezione popolare alla partecipazione democratica, fenomeno che oltre a produrre gli effetti che già vediamo indebolisce progressivamente la democrazia stessa, facendola diventare gradualmente qualcos’altro di tutt’altro che desiderabile. E anche questo non sta avvenendo in “tempi geologici”.

 

lunedì 4 novembre 2024

Naturalmente Antropico

La lettura del libro "il Governo dell'Acqua - Ambiente Naturale e Ambiente Costruito", del Professor Andrea Rinaldo (1), mi ha indotto in alcune riflessioni. Credo che su determinate questioni anche noi Geologi dovremmo interrogarci e non adottare posizioni per partito preso. Ha senso parlare oggi di ambiente naturale, nel senso di non recante alcun senso di artificializzazione, ovverosia sia di effetti indotti da attività antropiche? Possiamo dire che esistano ambienti simili sulla Terra, oggi?

Recenti studi archeologici mostrano come anche la parte interna dell'Amazzonia avesse una cospicua popolazione umana, stimata in decine di milioni di individui, socialmente complessa e con realtà "urbane" ragguardevoli. L'arrivo dei conquistadores e con loro delle malattie ha determinato lo sterminio di queste popolazioni e la loro regressione a gruppi tribali isolati, creando l'illusione successivamente che fosse sempre stato così e che il bacino del Rio delle Amazzoni fosse una sorta di Eden dove l'uomo non si era inoltrato. Tolta la grande foresta sudamericana cosa resta? Forse qualche abisso oceanico. Forse.

Orbene questo non vuol essere un lamento sull'invasività e pervasività della nostra specie, è un dato di fatto, e oggi siamo di fronte alla sfida di renderci più "sostenibili" per il pianeta, ma lo facciamo in primis per noi, diciamocelo (non c'è nulla di male ad essere intellettualmente onesti, anche nell'ambientalismo), se poi la biosfera planetaria ne trae beneficio è un po' un effetto collaterale, stavolta positivo.

Riconoscere, però, che parlare di "ambiente naturale" e "rinaturalizzazione" in molti contesti è solo retorica e ha poco senso, a mio avviso, consentirebbe di partire più pragmaticamente nei ragionamenti su come tutelare davvero alcuni ambienti e soprattutto con rendere meno impattante la nostra presenza. Così come iniziare a vedere il concetto di "equilibrio naturale" per quello che è... ossia, spesso, una mera mistificazione comunicativa. In tutti le aree della Terra, abbiamo evidenze dirette o indirette degli effetti della presenza umana, la cui intensità varia in modo direttamente proporzionale alla vicinanza col più vicino insediamento della nostra specie e con la densità della sua popolazione in quell'areale.

Dire, quindi, in molti casi, che si ha un obbiettivo di "ripristino degli equilibri naturali", nel concreto dovrebbe tradursi con  un allontanamento delle comunità dalla zona su cui si vuol operare e una minimizzazione degli effetti su scala planetaria di origine antropica. Puro velleitarismo. Più utile ad azioni efficaci di tutela sarebbe lavorare a tutte quelle soluzioni che consentono una miglior coesistenza tra i vari ambienti e la nostra specie, attraverso tutte quelle misure che consentano un reciproco adattamento.

Piccola parentesi, lo stesso concetto di "equilibrio naturale" - come evidenzia anche il prof. Rinaldo nel suo libro, è fuorviante e mistificatorio. Si esprime questo concetto, come se l'equilibrio degli ecosistemi fosse uno stato stazionario e duraturo, mentre è in realtà uno stato dinamico con continui aggiustamenti ai cambiamenti dei parametri di fondo (clima, fisica atmosferica, dislocazione continentale...), che appunto variano con intensità e velocità variabili nel tempo in funzione della contingenza.

Azioni di tutela volte a ritornare al concetto di equilibrio naturale, nella sua accezione di staticismo perfetto, significa, realtà, applicare una forzosa cristallizzazione a un dato sistema ambientale, che prima o poi genererà effetti imprevedibili e raramente positivi.

Ne consegue la necessità di strategie di adattamento che abbiano il coraggio di applicare anche interventi diretti di trasformazione territoriale, se necessari, e l'uso delle possibilità che la tecnologia offre: la tecnofobia che si respira in tanta parte del movimento ambientalista, che vagheggia un ritorno ad una fase più spartana e bucolica del rapporto uomo - natura, spesso ha prodotto iniziative che hanno generato costi sociali pesanti per le popolazioni più deboli, interventi inadeguati che si sono rivelati inefficaci alla bisogna, o peggio controproducenti e alimentato l'idiosincrasia verso la necessità di sensibilità ambientale.